Un’isola nel mirino

La Sardegna militarizzata raccontata da Aide Esu, docente di sociologia dell’Università di Cagliari che ci parla di controllo dei territori e degli immaginari

La militarizzazione non è un fenomeno confinato ai tempi di guerra ma una realtà che contamina le nostre esistenze anche quando pensiamo di vivere in pace. E una di queste realtà troppo spesso ignorate è qui, a due passi da noi, nel cuore del Mediterraneo. È la Sardegna dei poligoni militari.
Per capire meglio le implicazioni di questo fenomeno abbiamo parlato con Aide Esu, docente di sociologia all’Università di Cagliari e autrice del libro “Violare gli spazi. Militarizzazione in tempo di pace e resistenza locale”. Con il suo sguardo critico e documentato, Esu ci guida attraverso la complessa rete di interessi geopolitici ed economici che hanno portato alla militarizzazione della Sardegna, una delle regioni strategicamente più rilevanti di quello che non sembra essere più il Mare Nostrum.

La Sardegna come portaerei del Mediterraneo

La Sardegna è entrata nel radar dei pianificatori militari statunitensi subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, “grazie alla sua posizione geografica strategica”. Esu spiega come i primi insediamenti militari siano stati frutto di una pianificazione meticolosa che vedeva quest’isola come una “portaerei in mezzo al Mediterraneo”.  Tra i primi poligoni costruiti dopo l’ingresso dell’Italia nella NATO, ci furono quelli di Salto di Quirra e Decimomannu, già utilizzato durante la guerra, e successivamente Capo Teulada. La creazione di queste basi non fu un caso isolato, ma parte di un disegno strategico più ampio degli Stati Uniti che, nel dopoguerra, ridisegnarono il loro posizionamento in Europa, imponendo un numero elevato di poligoni militari. E infatti “successivamente sarà la Sicilia a essere oggetto di grande attenzione degli americani, soprattutto con le basi di Comiso e di Sigonella“.

Le isole nella logica della colonizzazione militare

Quindi non solo la Sardegna ma le isole in generale sono diventate oggetto di grande attenzione da parte degli analisti militari americani.
“La loro geografia isolata e spesso inaccessibile le rende ideali per attività riservate”. Esu sottolinea come, “anche nel Pacifico, le isole siano state oggetto di colonizzazione militare, con casi estremi come quello di Chagos, dove la popolazione fu evacuata per fare spazio alle basi del Pentagono” che da qui poteva dominare gran parte dell’Asia meridionale e dell’Africa orientale. Questa logica di colonizzazione si manifesta anche in Sardegna, dove le autorità locali hanno poco o nessun potere di intervento.
“E alcune testimonianze rese note dopo Wikileaks” riportano come “gli analisti americani raccontino in maniera molto dettagliata questa filosofia”. Cioè: “È importante avere degli spazi a disposizione con un corpo politico poco interessato, poco attivo, e una popolazione poco resistente. Le tre caratteristiche fondamentali che devono avere le isole. E questo frame è sostanzialmente replicato all’infinito, a seconda della disponibilità e dei giochi geo-strategici degli Stati Uniti”.

L’impatto sulla vita quotidiana e la salute: la Sardegna come caso emblematico

La militarizzazione ha conseguenze dirette sulla vita quotidiana e sulla salute delle popolazioni interferite, “ovviamente con gradi diversi a seconda delle diverse circostanze”. E qui Esu cita il caso del Giappone “dove le basi hanno impattato in maniera massiva anche nei confronti delle donne. C’è un fortissimo movimento contro gli abusi sessuali che le donne giapponesi hanno subito da parte della presenza americana nelle sue isole”. Presenza spesso impunita perché “le aree dei poligoni, considerate terra nullius, sono spazi in cui i civili non hanno alcuna capacità di controllo”. E ciò accade ovunque ci siano insediamenti militari. Il caso del poligono di Quirra è emblematico: la procura generale ha accusato i comandanti di disastro ambientale, ma le parti civili non hanno ottenuto giustizia. Complice anche l’inazione delle autorità regionali”. E la mancanza di un registro tumori complica le cose perché “impedisce di provare l’impatto delle attività militari sulla salute dei residenti”.

La colonizzazione dell’immaginario collettivo

La militarizzazione non è solo fisica, essa invade anche l’immaginario collettivo. E a questo proposito Esu spiega che “il consenso viene costruito attraverso l’offerta di opportunità economiche e culturali in territori poveri, come nel caso del poligono di Quirra, dove sono stati creati l’istituto tecnico superiore e un teatro e un cinema. Cose che probabilmente quelle amministrazioni locali non avrebbero mai potuto permettersi senza la presenza militare”. E questo ha reso difficile parlare degli effetti negativi della base, creando un tabù che gli attivisti hanno faticato a rompere.
Racconta Esu: “Gli attivisti che nei primi anni ‘80 raccoglievano i primi dati sugli impatti sulla salute del poligono di Quirra, hanno incontrato grossissime difficoltà sul territorio. Addirittura ci hanno raccontato che non riuscivano neanche a distribuire i volantini perché le persone avevano timore di mostrarsi in pubblico ad accettare un volantino che in qualche modo metteva in discussione la presenza di militari”.

Pratobello e oltre

Nonostante le difficoltà, ci sono stati momenti di resistenza significativa. Esu ricorda in particolare “la rivolta di Pratobello contro l’insediamento di un poligono di tiro in un’area di terre pubbliche utilizzate dagli allevatori per la transumanza invernale”, un momento di grande slancio che ha portato alla vittoria degli abitanti.
“La mobilitazione fu forte e preceduta da una politicizzazione giovanile, soprattutto tra gli orgolesi formatisi nei movimenti del ’68”. L’importanza del caso di Orgosolo, sottolinea Esu, è “l’adozione di pratiche non violente in un contesto stigmatizzato dalla violenza dei sequestri di persona“. Questo “rappresentò sia una vittoria contro il poligono, che non venne creato, e offrì anche un’immagine diversa rispetto a quella veicolata dalla stampa italiana dell’epoca”.
“Dal 2014 in poi, grazie alle indagini sul poligono di Quirra, c’è stata una riattivazione di gruppi locali indipendentisti, culminata in una grande manifestazione che ha dato vita a un movimento regionale”, continua Esu. Poi, tra il 2010 e il 2017, “numerosi comitati locali si sono uniti per difendere il territorio contro la presenza di radar, impianti di trasformazione dei rifiuti e altre minacce, alimentando un attivismo territoriale che ha rilanciato l’opposizione organizzata a livello regionale”.

Geopolitica e futuro, la Sardegna hub strategico permanente?

La posizione geografica della Sardegna la rende ancora oggi un hub strategico fondamentale per la NATO, soprattutto in un contesto di crescenti tensioni geopolitiche come la guerra in Ucraina. “L’anno scorso, le attività di addestramento a Capo Teulada hanno coinvolto 9.000 uomini e una decina di Stati europei, mostrando quanto la Sardegna sia ancora fondamentale per gli eserciti”. Lo segnala Esu che poi ricorda: “Dopo la Commissione parlamentare sull’uranio impoverito, le autorità locali avevano negoziato con lo Stato una riduzione della presenza militare nell’isola tant’è che il poligono di Capo Teuladain un documento sottoscritto dalle autorità regionali, avrebbe dovuto chiudere. In realtà l’anno scorso le autorità militari hanno dichiarato che Capo Teulada non si tocca, che Capo Teulada è strategico e fondamentale per la NATO“.
E così, nonostante le promesse di riduzione della presenza militare, la realtà sembra andare nella direzione opposta, con esercitazioni sempre più frequenti e imponenti.

Il mito della guerra: il discorso pubblico

La militarizzazione viene presentata come necessaria anche attraverso il discorso pubblico, che spesso si lega alla tecnologia e alle opportunità offerte ai giovani. La base di Decimomannu, promossa come un centro di eccellenza tecnologica per l’addestramento dei piloti, è un esempio lampante. Esu critica questo approccio: “La guerra viene trasformata in un videogioco, e questo è proprio un mezzo per attirare i giovani”.
Non solo. Dice Esu che il discorso pubblico segue due strade. Da un lato, c’è il greenwashing: “I militari che dicono di aver tutelato porzioni di territorio proprio in virtù del fatto che la loro presenza ha impedito la cementificazione”.
Dall’altro lato, c’è la formazione dei giovani: “Penso alla cyberwar, dove non c’è più lo scontro fisico. Posso uccidere qualcuno a 1.000 km di distanza schiacciando un bottone. Quindi la guerra si presenta davvero come un grande videogioco”.

Il mito della guerra: il discorso mediatico

I media giocano un ruolo chiave nel mantenere una visione normalizzata delle attività militari. E se non tutti, sono molti quelli che si allineano.
Di più. Molte guerre moderne, come accade a Gaza e in Ucraina, mancano di una testimonianza giornalistica diretta. A Gaza, i pochi giornalisti presenti sono spesso embedded con l’esercito israeliano, e vedono solo ciò che viene loro mostrato. Ciò impedisce al pubblico di comprendere la reale devastazione e i danni alla popolazione civile.
Sottolinea Esu: “Questo crea una mancanza di consapevolezza critica tra chi segue le notizie, inclusi i nostri studenti che restano spesso sconvolti poiché sono privi di informazioni adeguate e, di conseguenza, di un filtro critico” per valutare la realtà.
Anche “la necessità di aggiungere degli aggettivi qualificativi, di presentare la guerra come giusta, serve a giustificare interessi economici enormi e un grande investimento nella politica degli armamenti”.

Gli antidoti: il “Dottorato nazionale di studi sulla pace”

Infine, Esu parla del “Dottorato nazionale di studi sulla pace”, un progetto nato dalla collaborazione tra sessantasei atenei italiani per promuovere la ricerca sulla pace e che oggi festeggia l’uscita del primo bando di ricerca, capofila La Sapienza di Roma. “In un momento in cui parlare di pace è quasi un peccato mortale, questo dottorato rappresenta una forma di resistenza accademica”, afferma con orgoglio la docente che ci tiene a sottolineare: “Soprattutto oggi che alcuni rettori e colleghi stanno entrando nel CdA di Fondazione Leonardo”.

La Sardegna, dunque, non è solo un luogo strategico per le operazioni militari, ma anche un terreno di scontro culturale e politico, dove la resistenza civile e la costruzione di un immaginario collettivo di pace rappresentano le nuove frontiere della lotta contro la militarizzazione.

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Simona Tarzia

Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.
Il mio impegno nel giornalismo d’inchiesta mi è valso il “Premio Cronista 2023” del Gruppo Cronisti Liguri-FNSI per un mio articolo sul crollo di Ponte Morandi. Sono co-autrice di diversi reportage tra cui il docu “DigaVox” sull’edilizia sociale a Genova; il cortometraggio “Un altro mondo è possibile” sul sindaco di Riace, Mimmo Lucano; “Terra a perdere”, un’inchiesta sui poligoni NATO in Sardegna.

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