Da destra a sinistra, future alleanze sotto stress

E sullo sfondo c’è il tema della legge elettorale

L’avvicinarsi delle elezioni amministrative del 12 giugno surriscalda il clima tra le forze politiche e già si manifestano le prime ricadute sulle stesse alleanze, attuali e future.
E non si tratta infatti di fibrillazioni che scuotono la sola maggioranza che sostiene il governo Draghi – pur costantemente messa a dura prova – ma che coinvolgono in maniera trasversale e in modo più ampio le coalizioni, che faticano a trovare una rotta e a rinsaldare storici assi e futuri assetti.
Sullo sfondo (ma destinato nei prossimi mesi ad assumere un carattere dirimente) c’è il tema della legge elettorale. Non è un mistero, del resto, che un po’ tutte le forze politiche, e in particolar modo quelle favorevoli a una riforma del sistema di voto in senso proporzionale, guardino all’appuntamento del 12 giugno come a una data spartiacque, nella convinzione – è il ragionamento ad esempio fatto da tutti i ‘capi corrente’ del Pd, riuniti giorni fa alla Camera in un seminario in cui si è registrata la convergenza sul proporzionale – che il risultato delle urne sarà determinante per capire come si muoveranno Lega e Forza Italia rispetto all’alleato Fratelli d’Italia.
Ovvero che possano essere tentate dalle ‘mani libere’ alle politiche, il che tradotto vorrebbe dire dare l’ok al proporzionale. I tempi non sono ancora maturi e non è detto che i fautori del proporzionale (M5s, Leu e la grande maggioranza dem) riescano a costruire una ampia convergenza (al momento resta il no di Lega e FdI, più morbidi gli azzurri). Fatto sta che la riforma elettorale è stata al centro di un altro incontro, tenuto riservato, che si è svolto alcuni giorni fa alla presenza di tutti i capigruppo di maggioranza e promosso da Astrid, nel quale si sarebbero registrati – viene riferito – tiepidi segnali di apertura sul proporzionale anche da quelle forze storicamente contrarie.

E c’è chi, alla Camera, ricorda l’atteggiamento non barricadero e per nulla ostruzionistico del centrodestra sul voto sulla riforma costituzionale che modifica da regionale a circoscrizionale la base elettiva del Senato, ora in stand by a palazzo Madama in attesa delle amministrative. Così come non è passata inosservata ai più in Parlamento la presenza di Roberto Calderoli, l’esperto di riforme elettorali per il partito di via Bellerio, al vertice di ieri tra i leader del centrodestra. Vertice che non solo non e’ servito a siglare il disgelo, ma anzi sembra aver ottenuto l’effetto opposto, ovvero inasprire le frizioni che da settimane dividono Matteo Salvini e Silvio Berlusconi da Giorgia Meloni, a partire dalla diatriba, ancora non risolta, sul candidato alle prossime regionali in Sicilia (FdI insiste sulla ricandidatura di Musumeci, ma la Lega frena e Forza Italia finora non ha dato il suo placet).
E se il centrodestra si è ricompattato oggi, almeno sulla carta, in occasione dell’elezione del nuovo presidente della commissione Esteri del Senato, dove l’ha spuntata l’azzurra Stefania Craxi anche grazie al voto compatto di Forza Italia, Lega e FdI, è altrettanto vero che i toni utilizzati da Meloni nella nota diramata al termine del vertice di Arcore lasciano pochi dubbi all’interpretazione sullo stato di salute della coalizione, tanto da suscitare l’irritazione del leader azzurro. Nella nota FdI ha lamentato come restino “ancora fumose le regole d’ingaggio sulle modalità con cui formare liste e programmi comuni”. Non solo: FdI ha tenuto anche a rimarcare che “l’unita’ non deve essere solo nella forma ma anche nelle scelte”.

Ancor più complicate le dinamiche nel centrosinistra. Tra le file parlamentari del Pd la sofferenza è palpabile. I continui strappi del Movimento 5 Stelle, dicono i dem, sembrano tutti elettorali e, se così fosse, sono destinati ad accompagnare la legislatura fino alla sua fine naturale.
L’ultimo casus belli è arrivato oggi, con la sconfitta dei 5 Stelle nella partita per la presidenza della Commissione Esteri del Senato. “Si è formata una nuova maggioranza che spazia da FdI fino a Iv”, è stato il commento a caldo di Giuseppe Conte, subito dopo la riunione di un consiglio nazionale del M5s convocato d’urgenza. Il presidente del M5s non si limita a questo, ma chiama in causa Draghi: “Il premier era stato avvertito ieri del fatto che si stava lavorando in modo surrettizio a violare i patti. Spetta a lui prenderne tenere in piedi questa maggioranza”.
Il segretario del Pd interviene per gettare acqua sul fuoco: “Il centrodestra di governo ha commesso un errore”, spiega: “Ha aggiunto tensioni in una giornata in cui la compattezza della maggioranza è scesa di un gradino”. Di qui l’avvertimento di Letta a tutta la maggioranza: “Se si accumulano gli incidenti si finisce fuoristrada e poi e’ difficile rimettere la macchina in carreggiata”.
Al di là dell’errore che Letta attribuisce al centrodestra, tuttavia, fra i parlamentari dem è diffusa la convinzione che sia stato il M5s a giocare male le proprie carte. L’epilogo, dicono i dem, era largamente prevedibile. Le operazioni del M5s prima del voto, viene spiegato, lasciavano intravedere all’orizzonte il sorpasso da parte del centrodestra. È soprattutto sui ‘grandi temi’ che si palesano le spaccature fra i dem e il M5s.
L’ultimo caso è rappresentato dalla pressante richiesta di Conte per un nuovo voto del Parlamento sull’invio di armamenti all’Ucraina. In quel caso Letta ha fatto presente che il Parlamento ha già deliberato e, contemporaneamente, si è detto pronto a un nuovo voto, nel caso se ne presentasse la necessità. Prima di questo, era stata la questione del termovalorizzatore di Roma a far litigare dem e Cinque Stelle, con i primi a sostenere il proprio sindaco e i secondi ad alzare le barricate. E la serie rischia di conoscere nuove e numerose puntate se è vero, come temono i parlamentari Pd, che si tratta di una strategia messa in campo dal Movimento a fini elettorali. La speranza dei dem è che si tratti di una strategia destinata a durare fino alle prossime amministrative e non alle politiche del 2023.

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