Il Libano ancora aspetta la verità processuale sul disastro, sepolta tra ritardi e insabbiamenti come succede in tutti i Paesi dove comanda una classe politica corrotta, e noi italiani ne sappiamo qualcosa
Beirut – Sono passati due anni dall’esplosione che il 4 agosto 2020 ha devastato il porto di Beirut e buona parte dei quartieri limitrofi quando la deflagrazione di 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio provocò 220 morti e 6.500 feriti, 300 mila sfollati e un terremoto di magnitudo 3.5.
I danni economici causati da quel disastro, secondo le stime della Banca Mondiale, ammontano a 4,2 miliardi di dollari. A questo rilevante aspetto economico, si affianca la mancanza di fondi per ricostruire una parte di città crollata sotto il peso della negligenza di chi si doveva preoccupare di non lasciare stoccati per ben 6 anni materiali pericolosi senza alcuna misura di sicurezza. Ma come spesso accade, dopo due anni da quella tragedia le indagini sono ferme, ostacolate da una classe dirigente, spesso corrotta, che si autoprotegge.
Chi è sopravvissuto al disastro ha chiesto al Consiglio dei diritti umani dell’Onu di avviare un’inchiesta perché, a detta di molti esperti, “questa tragedia ha segnato una delle più grandi esplosioni non nucleari nella memoria recente, eppure il mondo non ha fatto nulla per scoprire perché è successo”.
L’esplosione e le sue conseguenze hanno messo a fuoco problemi sistemici di governance, negligenze e corruzione diffusa.
Una parte di città è ancora ampiamente distrutta, l’esplosione ha danneggiato il principale punto di accesso al porto e il silo granario è crollato pochi giorni fa dopo un incendio divampato a luglio a causa della fermentazione delle riserve di cereali. A questo si aggiunge che il Libano importa l’80% delle derrate alimentari.
L’accesso al cibo è seriamente minacciato.
La situazione alimentare si aggiunge alle difficoltà di accesso a carburante, elettricità e medicine, l’inflazione è al 210% e la lira libanese si è svalutata del 95%.
In questa situazione drammatica, già in atto ben prima dello scoppio del conflitto in Ucraina, il Libano attende l’arrivo nel porto di Tripoli della “Razoni” con 26mila tonnellate di grano che, prima di lasciare Odessa, una squadra di funzionari provenienti da Russia, Ucraina, Turchia e Nazioni Unite ha ispezionato a fondo.
Non ci sono legami apparenti tra l’esplosione nel porto di Beirut e l’incendio dei silo e il realtivo crollo.
Ma nell’aprile del 2022 il governo libanese ne aveva deciso la demolizione, sospesa però, dalle proteste dei parenti delle vittime che temevano, non a torto, che l’apertura di un cantiere con escavatori e mezzi pesanti potesse cancellare prove decisive per stabilire le responsabilità dell’esplosisione del nitrato di ammonio nei depositi del porto. Una sorta di demolizione che avrebbe cambiato fatti e la loro narrazione, per portare la vicenda che ha causato più di 200 morti sui binari della fatalità.
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