Riprese le udienze oggi, dopo quasi tre mesi di pausa
Città del Vaticano – Il denaro contante per 200 mila euro e le monete antiche per un valore di un milione di euro, trovati a novembre 2020 dalla Guardia di Finanza nella casa di famiglia di Fabrizio Tirabassi a Celano (L’Aquila), “erano di mio padre”.
Ha replicato così l’imputato nel processo sulla gestione dei fondi della segreteria di Stato, di cui si è concluso oggi l’interrogatorio in aula. Nella venticinquesima udienza del processo nella Sala polifunzionale dei Musei vaticani, ripreso oggi dopo quasi tre mesi di pausa, l’ex funzionario dell’Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato – accusato di peculato, abuso d’ufficio, corruzione, truffa ed estorsione – ha risposto alle domande del promotore di giustizia Alessandro Diddi, neo-nominato dal Papa al posto del dimissionario Gian Piero Milano.
I soldi in una banca svizzera
In particolare, nell’interrogatorio di oggi, ci si è riferiti soprattutto alla rete di rapporti di Tirabassi con consulenti o aspiranti tali della Santa Sede. E anche ai redditi dell’ex funzionario, tra cui spiccavano un milione 360 mila euro in un conto nella banca Svizzera Usb, frutto della “procura amministrativa” riguardante due fondi d’investimento concessagli tra il 2004 e il 2009 dal dirigente dell’Ufficio, monsignor Gianfranco Piovano, e poi revocata dal subentrato monsignor Perlasca.
Arrivati poi al sequestro delle monete e del denaro contante nella casa di Celano, gli avvocati difensori Cataldo Intrieri e Massimo Bassi hanno fatto opposizione, perché “il sequestro è stato annullato in Italia dal Tribunale del riesame di Roma, che ha disposto la restituzione, e a distanza di un anno quei beni non sono stati ancora restituiti”. In sostanza, obiettano gli avvocati di Tirabassi, “le autorità vaticane non adempiono a un atto disposto dalla magistratura italiana.
E c’è un problema di nullità che si trasferisce su quei beni che per noi, a livello processuale, non esistono, sono inutilizzabili, quindi non possono essere oggetto di domande”. Inoltre, “le istanze in Italia sono state presentate da Onofrio Tirabassi, nel frattempo deceduto, padre dell’imputato, che rivendicava la proprietà di quei beni, frutto delle sue attività”.
Il presidente Pignatone, dopo una breve camera di consiglio, ha però respinto l’opposizione difensiva sostenendo che quel sequestro resta comunque “un fatto storico” avvenuto.
Fabrizio Tirabassi, sottoponendosi quindi alle domande, ha confermato che quei beni “non erano miei. Erano nella casa paterna ed erano di proprietà di mio padre, come da lui stesso rivendicato. Lui, che aveva avuto una lunga attività lavorativa dapprima in Vaticano e poi come titolare di una società, era restio a depositare il denaro in banca essendo stato vittima di di alcuni furti e rapine a mano armata.
Riteneva più prudente conservarli in casa. Da pensionato il collezionismo numismatico, frutto dei suoi risparmi e anche di attività di scambio, era diventato la sua passione, era la sua vita, e svolgeva anche opera di consulente in quel campo. Era quello in cui credeva”.
Domani, con l’avvocato Nicola Squillace, si concluderanno gli interrogatori degli imputati e inizierà l’ascolto dei testimoni dell’accusa, che continuerà venerdì con il revisore generale dei conti vaticani, Alessandro Cassinis Righini, e il direttore generale dello Ior, Gianfranco Mammì.
Proprio l’Ufficio del revisore generale e lo Ior sono gli autori delle denunce che nell’estate 2019 hanno dato il via all’inchiesta vaticana sull’acquisto del Palazzo di Sloane Avenue, a Londra. Nella lista dei testimoni dell’accusa non figura per ora colui che è considerato il testimone-chiave, monsignor Alberto Perlasca, peraltro costituitosi anche come parte civile.
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