In Liguria i latitanti si sentono sicuri come nella “loro” terra

Bonavota beccato nel centro di Genova. E non è l’unico fuggitivo che ha scelto di nascondersi nella nostra regione

Genova – La storia dei latitanti della ‘ndrangheta insegna che la Liguria (come anche pezzi del Piemonte) è una terra dove muoversi e operare nella tranquillità garantita da un’ampia rete di affiliati e conniventi a cui fa da cornice una fitta nebbia di omertà e un pericoloso negazionismo istituzionale.

Non è di molto tempo fa la notizia del reggente della cosca Gallico, Filippo Morgante, che, latitante, veniva portato a spasso per il ponente ligure dal noto Carmelo Sgrò, e che, senza alcun problema, partecipava a una riunione di ‘ndrangheta – come scriveva il Gip – a Borghetto Santo Spirito. Elementi che, però, per i giudici di Imperia non erano questioni di ‘ndrangheta.

Qualche anno prima, tra ponente ligure e Costa Azzurra, si è assistito a una vera e propria “caccia all’uomo” da parte delle cosche legate ai potenti Piromalli, dai Marcianò ai Gullace. Esponenti dei sodalizi ‘ndranghetisti liguri vennero sguinzagliati per trovare, prima delle Forze dell’Ordine, Vincenzo Perri, latitante dopo essere sfuggito, uccidendo uno degli aggressori, a un agguato a Gioia Tauro.
Il fatto che costoro, ad oggi liberi come l’aria, volessero applicare le “regole” della vendetta ‘ndranghetista, non ha destato, in questa terra alcun allarme sociale.

Ma non allontaniamoci troppo nel tempo e non disperdiamoci nelle molteplici storie di latitanza che sono scritte in quel pezzo di terra mafiosa che è il nord, dove l’omertà è divenuta una dei tratti caratterizzanti la comunità e persino le Istituzioni.

Concentriamoci sui Bonavota.

Era l’agosto del 2008 quando gli agenti della Polizia di Stato di Genova, nel quartiere di Voltri, arrestavano i latitanti Domenico Bonavota e Antonio Patania, esponenti della locale di S.Onofrio, organici della cosca Bonavota. A supportare la loro latitanza in terra di Liguria vi era una vecchia conoscenza delle cronache: Onofrio Garcea. Questi, già operativo con il sodalizio dei mammolesi Macrì, insediati ormai da decenni in Valpolcevera, e poi ancora con Vincenzo Stefanelli della cosca Stefanelli-Giovinazzo e legato da vincolo di parentela ai Morabito-Palamara-Bruzzaniti, è uno dei pilastri della cosca Bonavota tra Liguria e Piemonte, ed esponente di spicco della locale di Genova.
I latitanti vibonesi, con i Garcea erano tranquilli, proprio come i politici che con Garcea si rapportavano per acquisire i voti controllati dalle cosche in terra di Liguria. Come nel 2010, in una pizzeria di Voltri, dove Onofrio Garcea veniva fotografato a una cena di calabresi mentre presentava, distribuendo il materiale elettorale, l’assessore all’urbanistica del Comune di Arenzano in corsa per elezioni regionali nella lista dell’Italia dei Valori. Allo stesso modo, nel ponente genovese, lo stesso Garcea operava per sostenere anche un’altro candidato, questa volta nelle liste dell’Udc e già suo “datore di lavoro” in una finanziaria, Pietro Ferdinando Marano.

Garcea finirà dentro per l’inchiesta per usura “Finanziamento Sicuro” e poi per associazione mafiosa (solo dopo che la Cassazione annullava, bacchettando pesantemente la Corte d’Appello genovese, le assoluzioni insostenibili del procedimento “Maglio 3″). La fece franca invece, come gli altri sodali delle locali di Genova e Ventimiglia, per quei “voti” inquinanti che muoveva per le elezioni regionali liguri e così si spostò in Piemonte dove, sempre nell’interesse dei Bonavota, manco a dirlo si dilettava nel voto di scambio. Ma questa volta, la Dda di Torino lo fa condannare.
Nel frattempo, però, si manifesta il figlio d’arte, Davide Garcea, che segue le orme del padre e oltre agli affari di droga si dedica a mantenere i rapporti con gli esponenti del sodalizio ‘ndranghetista vibonese.

E arriviamo a oggi, a Genova. Dove la consorte da tempo faceva l’insegnante. Nel centro della città, nella Cattedrale, dove è finita la latitanza di Pasquale Bonavota, catturato dai militari dell’Arma dei Carabinieri, in esecuzione dell’ordinanza di arresto per l’inchiesta “Rinascita Scott” della Dda di Catanzaro, guidata dal procuratore Nicola Gratteri.

Proprio quell’inchiesta riportava alla luce il territorio genovese per le propaggini dei Bonavota.
In quelle carte si ritrova anche la pizzeria di Voltri, gestita da un parente del vibonese Domenico Cichello. Quest’ultimo è considerato a pieno titolo tra gli esponenti della consorteria ‘ndranghetista al centro dell’indagine della Procura di Gratteri e per cui è a processo.
Dopo l’arresto del vibonese, il ristoratore postava sui social una foto con un commento commovente perché gli mancavano le telefonate con “il cugino”. Talmente commovente che qualcuno pensava che Domenico fosse morto. Per il ristoratore voltrese era troppo, probabilmente, scrivere che il parente era stato arrestato perché ritenuto parte di quella “montagna di merda” (come Peppino Impastato chiamava la mafia) che è la ‘ndrangheta.
E infatti tra i suoi contatti ci sono esponenti storici di famiglie ‘ndranghetiste insediate e operanti a Genova da decenni e già ben noti per condanne anche pesanti.
Questa è la Liguria, che per la ‘ndrangheta è “casa”.

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