La Cassazione cala il sipario sul processo. Assolti Mori e Dell’Utri
Palermo – Dieci anni. Tanto è andato avanti tra primo grado, appello e Cassazione, il processo per accertare l’esistenza di una trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra.
Finché alle 15 del 27 aprile, la Corte di Cassazione entra in camera di consiglio e, demolendo le accuse, mette la parola fine al “processo allo Stato”.
I supremi giudici erano chiamati a decidere sul ricorso presentato dalla Procura generale del capoluogo siciliano dopo la sentenza del 23 settembre 2021, che ribaltò il verdetto assolvendo la gran parte degli imputati condannati in primo grado per quella che conosciamo tutti con il nome di trattativa Stato-mafia.
La prima udienza a Palermo, il 29 ottobre 2012
La prima udienza del processo sulla Trattativa Stato-mafia ebbe luogo a Palermo il 29 ottobre 2012. Il procedimento fu istruito da Antonio Ingroia, Antonino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene.
Sul banco degli imputati, insieme ai rappresentanti delle istituzioni, anche i nomi pesanti di Cosa nostra: Salvatore “Totò” Riina, Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, e il medico dei boss Antonino Cinà.
Il verdetto venne emesso il 20 aprile 2018, nell’aula bunker del Pagliarelli al termine di oltre quattro giorni di camera di consiglio, e sancì che la trattativa c’era stata e aveva rilevanza penale.
Boss e politici furono dichiarati colpevoli del reato di minaccia e violenza al corpo politico dello Stato.
La trattativa, secondo quel primo grado, sarebbe stata intavolata dai carabinieri fino al 1993, dall’anno successivo in poi dall’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Furono condannati a 12 anni di carcere, oltre a Dell’Utri, i generali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni e il boss Antonino Cinà; a 28 anni Leoluca Bagarella, la pena più pesante. Otto anni al colonnello Giuseppe De Donno. Stessa pena per Massimo Ciancimino, accusato di calunnia nei confronti dell’allora capo della polizia. Gianni De Gennaro. Assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Prescrizione per Giovanni Brusca. Assolto l’ex ministro Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza.
Nelle 5.252 pagine delle motivazioni di primo grado, che arrivano lo stesso anno nell’anniversario della strage di via D’Amelio, fu espressa, tra l’altro, la convinzione che “l’improvvisa accelerazione che ebbe l’esecuzione del dottore Borsellino” fu determinata “dai segnali di disponibilità al dialogo, e in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci, pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D’Amelio”.
Per cui, secondo i giudici di primo grado, “non vi è dubbio” che i contatti fra Mario Mori e Giuseppe De Donno con Vito Ciancimino, “unitamente al verificarsi di accadimenti (quali l’avvicendamento di quel Ministro dell’Interno che si era particolarmente speso nell’azione di contrasto alle mafie) che potevano ugualmente essere percepiti come ulteriori segnali di cedimento dello Stato, ben potevano essere percepiti da Riina già come forieri di sviluppi positivi per l’organizzazione mafiosa nella misura in cui quegli ufficiali lo avevano sollecitato ad avanzare richieste cui condizionare la cessazione della strategia di attacco frontale allo Stato”.
Quanto a Marcello Dell’Utri, i giudici di primo grado sottolinearono che il ruolo “come intermediario delle minacce di Cosa nostra a Silvio Berlusconi non si colloca nel momento in cui quest’ultimo decise di scendere in politica, ma fu espresso dopo che fu formato e insediato il nuovo governo presieduto proprio da Berlusconi”. Il riferimento è negli incontri che Dell’Utri, condannato a 12 anni, ebbe con l’ex stalliere di Arcore Vittorio Mangano “in almeno due occasioni, la prima tra giugno e luglio 1994, la seconda nel dicembre dello stesso anno, per sollecitare l’adempimento degli impegni presi durante la campagna elettorale, ricevendo, in entrambe le occasioni, ampie e concrete rassicurazioni”.
La Corte sostenne che Dell’Utri “continuava ad informare Berlusconi di tutti i suoi contatti anche dopo l’insediamento del governo da quest’ultimo presieduto e vi è la definitiva conferma che anche il destinatario finale della pressione o dei tentativi di pressione, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste che una inattività nel senso delle richieste dei mafiosi avrebbe potuto fare insorgere”.
L’appello che ribaltò il primo grado
La sentenza d’appello, giunta il 23 settembre del 2021, ribalta tutto. Dopo tre giorni di camera di consiglio, nell’aula bunker del Pagliarelli, manda assolto Dell’Utri, “per non avere commesso il fatto” e gli ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, “perché il fatto non costituisce reato”.
Pena leggermente ridotta a 27 anni al boss Leoluca Bagarella; confermati i 12 anni al medico mafioso Antonino Cinà, fedelissimo di Bernardo Provenzano.
La trattativa, intesa come dialogo per fare cessare la stagione delle bombe e degli attentati senza alcuna concessione da parte dello Stato, non fu reato. La tesi dell’accusa, quella del patto tra esponenti della politica, carabinieri e mafiosi che avrebbe accelerato anche la strage di via D’Amelio, era già stata messa fortemente in discussione dalla sentenza della Cassazione che aveva confermato, l’11 dicembre 2020, l’assoluzione dell’ex ministro Dc Calogero Mannino, e dunque la decisione della Corte d’Appello di Palermo, del 22 luglio 2019, che aveva ritenuto “indimostrato che Mannino abbia operato pressioni per la revoca del regime del carcere duro, secondo la tesi accusatoria che lo vuole come input, garante, e veicolatore alle autorità statali della minaccia contenuta nella trattativa”.
I giudici di appello del processo Stato-mafia hanno affermato che fu “improvvido” il tentativo dei carabinieri di “agganciare” Vito Ciancimino, l’ex sindaco mafioso vicino ai corleonesi di Riina e Provenzano. Ma la “finalità precipua ed anzi esclusiva era quella di scongiurare il rischio di nuove stragi”.
Scartata in partenza l’ipotesi di una collusione dell’Arma con ambienti della criminalità mafiosa, per quanto “improvvida” fu quella iniziativa, i carabinieri furono mossi da “interessi solidaristici, ossia – si legge nelle tremila pagine – da ragioni e interessi del tutto convergenti con quelli della vittima del reato di minaccia a Corpo politico dello Stato”. E anche per quanto riguarda Dell’Utri, il giudizio è tranchant: “Si è avuto modo di osservare che difetta la prova certa che lo stesso abbia fatto da tramite per comunicare la rinnovata minaccia mafiosa-stragista fino a Belusconi quando questi era presidente del Consiglio dei ministri così percorrendo quello che, per opera di semplificazione, può essere individuato come l’ultimo miglio percorso il quale il reato sarebbe Stato portato a consumazione”. Secondo i giudici di secondo grado, “al di là del pieno coinvolgimento di Dell’Utri nell’accordo preelettorale (o nella promessa elettorale come pure definita), sul quale sono state raccolte plurime e convergenti elementi di conferma perfino rafforzati in questo giudizio di appello, non si ha prova che a questa fase abbia fatto seguito la fase ulteriore della comunicazione della minaccia a Berlusconi in qualità di parte offesa e di Presidente del Consiglio”.
E oggi?
Oggi, ma restiamo in attesa delle motivazioni della Cassazione, l’ultima sentenza di questo lunghissimo processo suona come la rottamazione definitiva delle tesi della Procura di Palermo, accolte totalmente in primo grado e solo parzialmente in appello.
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