L’ossessione del Cavaliere

Berlusconi e il sogno irraggiungibile del Quirinale

Che siate sostenitori o critici di Silvio Berlusconi, non si può negare che il suo percorso politico e la sua incrollabile ambizione abbiano segnato un’era nella storia dell’Italia contemporanea.
L’unico obiettivo che gli è sfuggito, in effetti, oltre a quello di accaparrarsi Mondadori, è il Quirinale.

Un rapporto, quello tra Berlusconi e il Colle, che è sempre stato complesso: per motivi oggettivi, concettuali, persino caratteriali. Partiamo dai concettuali. Concettualmente il Quirinale sarebbe stato il logico coronamento non della sua carriera, ma della sua concezione del mondo. Ci spieghiamo: uomo d’impresa, dell’impresa Berlusconi aveva fatto proprio Il principio basilare, cioè che il potere è piramidale e chi sta al vertice comanda. E in cima alla piramide c’è sempre uno solo. Ergo: se un Cda ha un presidente, è lui quello che conta.
Ora, in Costituzione non è così: al vertice c’è qualcuno che conta molto, ma non moltissimo. Non che tagli i nastri e basta, tutt’altro, ma i poteri veri sono altrove, nelle mani del Presidente del Consiglio e del Parlamento. Non potendosi sostituire al secondo, il Cavaliere scelse di fare il primo, che poi è come essere in un’azienda dove chi comanda è l’amministratore delegato, e ce ne sono tante. Però di Gianni tutti si ricordano e di Romiti un po’ meno.
Di qui quel vago sentore in insofferenza, quasi di furto subito, che Berlusconi mostrava di fronte all’idea che lui, l’unto del Signore, in fondo dovesse sottostare al giudizio di qualcuno eletto anch’egli, ma non dal popolo, e che quel qualcuno potesse decretare la fine dei suoi governi.

E qui arriviamo alle questioni caratteriali

Oscar Luigi Scalfaro, con cui proprio non si prendeva, lo rimandò a casa a fine ’94 constatando non senza soddisfazione che Bossi e Buttiglione si sfilavano, e Pivetti e Scognamiglio non avrebbero innalzato le barricate per lui.
Era il culmine di mesi di sgarbi reciproci, finanziarie mandate alla controfirma all’ultimo minuto e successivi inviti a ingoiare il rospo. Mesi in cui Palazzo Chigi annunciava visite al Colle che il Colle avrebbe preferito mantenere segrete, e quando il corteo di Berlusconi arrivava fin sotto il Portone del Quirinale lo faceva a tutta velocità, con sgommata finale. Così, tanto per ribadire chi è che comandava.
Con Ciampi l’andamento fu altalenante. Inizialmente buono, poi molto meno passando dagli abbracci a Bossi sull’Alpe di Siusi al gelo delle leggi sull’editoria. Fu a questo punto, ancor prima che arrivasse l’ex comunista Napolitano, che Berlusconi prese sul serio l’idea di andarci lui, al Colle, e che non se parlasse più. Ma l’ostacolo, per l’appunto, erano i poteri limitati.

A questo punto gli si pararono due strade: riformare la Costituzione con la buona compagnia di un centrosinistra confuso e un Pds-Ds non contrario alla svolta presidenziale o, in alternativa, accontentarsi di quello che c’era e puntare, eventualmente, al settennato.
I cervelli più fini gli fecero notare che avere un partito perno della maggioranza parlamentare, un premier di fiducia e sé stesso a capo dello Stato avrebbe voluto dire, in termini reali, un sistema alla francese in cui lui avrebbe potuto avere la crema del potere, evitandone le immani fatiche. Lui capiva perfettamente il ragionamento: era caratterialmente che non gli tornava quel conto. Voleva ilpotere ma anche la gloria e non c’è gloria, se non  nemmeno la parvenza di una vittoria elettorale diretta e con un nemico nella polvere. A questo punto il meccanismo si inceppò. Si inceppò perché di riforme istituzionali sono quarant’anni che si parla ma nessuno è ancora riuscito a vararle. Ci sono infine le considerazioni oggettive: i numeri, gli astri, o il cielo   per una volta gli furono contrari. Anzi, non una volta: almeno tre.

A ogni mandato in cui si trattava di eleggere il Presidente della Repubblica, lui si ritrovava messo male.
Ci spieghiamo: Scalfaro se lo trovò già eletto, e durò fino al 1999. Nel 1999 la maggioranza era di centrosinistra, e ci fu l’accortezza di lanciare fin da subito nella mischia un candidato cui nessuno poteva proprio dire di no. Dissero, quelli del centrosinistra, Carlo Azeglio Ciampi.
A Berlusconi e Fini, all’epoca sodali, non restò che dire rispondere “ottimo anche per noi”.
Nel 2006, dopo un paio di governi del Cavaliere, ecco di nuovo ilcentrosinistra a farla da padrone. Ne uscì Giorgio Napolitano, che era migliorista ma mica graditissimo. Aspettiamo il 2013. Però nel 2013 vincono le elezioni quelli del Pd. Le vincono in effetti solo a metà e in 101 fanno fuori Prodi, un altro che al Quirinale avrebbe sempre voluto andarci.
A questo punto, ormai Berlusconi è in fase calante: ha perso Palazzo Chigi da due anni tra le antipatiche risatine di Merkel e Sarkozy. Resta Napolitano e arrivederci alla prossima occasione.

Quando questi lascia il Quirinale preso per la mano dalla moglie Clio, forse forse è il momento della zampata del leone. A guidare i democratici c’è quel Matteo Renzi che proprio il Cavaliere ritiene, per spregiudicatezza e comuni amicizie, il suo rampollo preferito. Si mettono persino d’accordo, con Berlusconi che va al Nazareno che è quasi come andare a Canossa. Il patto riguarda – ancora una volta – le riforme costituzionali, ma c’è chi dietro vi legge altro. Chissà. Ad ogni modo le riforme saltano con un referendum e alla fine al Quirinale ci andrà Sergio Mattarella.
Berlusconi, che aveva personalmente bloccato l’elezione di Mattarella due anni prima, mastica doppiamente amaro. Il Patto del Nazareno non sopravvive alla sua rabbia.

Ma è all’ultimo assalto che la faccenda si fa agra, perché non più tardi di un anno e mezzo fa Mattarella si schermisce, fa sapere che andrà in pensione, non ne vuol sapere di restare un altro settennato. Fa persino il trasloco in una casa dei Parioli. Berlusconi spera, pensa, si illude e immagina: tocca a me, l’Italia me lo deve. Prima fa chiedere ai suoi un riconoscimento alla carriera e tutti pensano a un laticlavio da senatore a vita. Poi lancia l’assalto finale, si candida ufficialmente. In tanti plaudono in pubblico mentre in privato si interrogano. “Ha i voti”, asseriscono i fedelissimi, “vedrete”. Ma Mattarella rientra dal Portone, con buona pace della sua padrona di casa ai Parioli.

Redazione del quotidiano digitale di libera informazione, cronaca e notizie in diretta

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *