Abbandonate l’idea di leggere un classico romanzo d’amore
L’amore non è solo gioia, paura, commozione, dolore, felicità. È condividere le parole con la persona che amiamo dando loro lo stesso significato. Ma la tastiera dei sentimenti ha note rapide e interrompere questa connessione è un attimo. Basta iniziare “a dare nomi diversi alle cose”.
Ce lo racconta Marcello Furiani passando attraverso le vite e le esperienze di Irene, Milo, Elia e Sonia, i protagonisti del suo ultimo romanzo. Storie che si inseguono. Quattro personaggi intricati dalle sfumature dell’amore, che portano addosso impronte profonde e indelebili che richiedono di essere affrontate e ricordate ogni giorno, per sopravvivere all’immobilità dell’esistenza.
Perché anche il tempo è un ricordo che non può vivere il suo momento al di là di quello che viene comunicato. Ore, minuti, secondi. Un tempo umano che vive solo grazie al racconto, alla conservazione della memoria, “che non significa tanto tenere desta la fiammella della nostalgia quanto non disconoscere quello che è successo”.
Ma per farlo ci vuole coraggio.
L’intervista
“Il tempo imperfetto” è il tuo terzo romanzo. Qual è questo tempo imperfetto?
Il tempo imperfetto, che è appunto il titolo del romanzo, è il tempo in cui le cose durano. L’imperfetto si usa quando si dice qualcosa che si ripete nel tempo. È questo, ma contemporaneamente è anche il tempo dell’umano, cioè il tempo in cui le cose finiscono, in cui le cose tramontano. Ed è quindi il tempo che in qualche modo ci definisce. Delimitandoci, ci definisce.
Il tempo imperfetto rappresenta anche ciò che non è stato portato a termine. Come influisce questo sui personaggi del tuo romanzo?
Ciò che non è portato a termine appartiene generalmente all’umano, perché anche ciò che può apparire nel presente come qualcosa di compiuto, in realtà nulla regge al tempo. Il che non è necessariamente un’obiezione nei confronti della vita, perché la vita ha questa capacità di vivere, di sopravvivere intorno a tutto ciò che continuamente muore. Però, l’indagine di questo romanzo è soprattutto l’indagine su un sentimento particolare, sulla fine di questo sentimento, che è un sentimento d’amore. E come si parla di amore in un romanzo? La letteratura ci ha dato mille indicazioni in questo senso. Quello che ho cercato di fare io è rifondare un linguaggio sull’amore, soprattutto attraverso le parole di una donna, cioè di Irene.
Perchè, come dice Milo in un passaggio del romanzo, solo una donna può consolare una sofferenza, solo la passione può essere raccontata da una donna.
Dicevi che hai cercato di ridefinire il linguaggio dell’amore all’interno di questo romanzo. C’è in questa descrizione di sentimenti anche qualcosa di autobiografico?
Allora, come spesso dico, io rubo molto dalle cose che mi accadono, mie o anche semplicemente osservando la vita delle altre persone. Poi, chiaramente, le elaboro. Non è semplicemente una trascrizione di un vissuto. Se c’è qualcosa di autobiografico, e c’è, non è importante tanto sapere o capire a che cosa o a chi si riferisce, ma è soprattutto legato al fatto che questo qualcosa che viene raccontato appartiene alla categoria del necessario. Il necessario è ciò che è stato e non poteva essere diversamente. Il necessario è una figura spietata, terribile se vuoi, perché è il contrario della possibilità. La possibilità è qualcosa che apre a un cambiamento. Il necessario risponde anche alla sua legge. E questa legge è una legge per cui le cose sono, avvengono, accadono e finiscono, in virtù di questa legge.
Quale significato ha l’affermazione di Irene: “Abbiamo cominciato a perderci quando abbiamo iniziato a dare nomi diversi alle cose”?
Questa affermazione, una delle frasi chiave del romanzo, arriva quando Irene si trova a dover dire la verità a Elia, con cui ha condiviso un rapporto sentimentale molto intenso. I due personaggi hanno un rapporto che si basa sul condividere le parole. Le parole diventano uno dei loro terreni comuni. Ma Elia a un certo punto ha paura e cambia il senso di queste parole. Disconosce questo sentimento e disconosce la parola, soprattutto la parola comune che aveva con Irene e su cui avevano costruito un mondo. E questo disconoscimento lo distrugge.
Un altro protagonista del tuo romanzo è Milo, che sembra vivere sempre sulla soglia. Perché?
Milo è un personaggio che sta sull’orlo, che guarda, che osserva gli altri, senza però mai entrare in contatto con i nomi e con i corpi delle persone.
Milo è incapace di possedere. Non ha una vera casa perché in realtà non si sente a casa da nessuna parte. È una figura della sospensione. Vive in questa condizione fino a quando non incontra Irene. E incontra Irene in un momento particolare, perché Irene si accorge di Milo perché lo riconosce come una persona che ha la capacità di ascoltare. E quindi è attraverso Irene che Milo comincia a capire di poter essere contagiato dalla biografia delle persone.
Si parla anche di riconoscenza in questo libro, ma in un modo molto particolare
L’idea di riconoscenza è legata all’idea della conservazione della memoria. Conservare la memoria non significa tanto tenere desta la fiammella della nostalgia quanto non disconoscere quello che è successo anche se quello che è accaduto finisce. Conservare memoria si lega alla riconoscenza. La riconoscenza è custodire ciò che si è perduto.
Anche se la cosa è finita, Irene continua a riconoscere di nuovo ciò che è accaduto. E questo è legato alla citazione che dicevamo prima, cioè nel senso che noi abbiamo cominciato a perderci quando abbiamo iniziato a dare nomi diversi alle cose ma all’ora noi dovevamo allo stesso nome alle cose.
Io ho conosciuto il bene, dice Irene, e lo riconosco.
Che ruolo ha la memoria nella trama di questo romanzo?
La memoria è uno dei temi che attraversa questo libro ma non solo questo libro. In realtà direi quasi tutti i miei libri perché la memoria, e la conservazione della memoria, è soprattutto la conservazione della parte di sé. Noi diventiamo quello che siamo grazie alle cose ci sono accadute e conservare la memoria significa conservare quello che è un percorso in qualche modo grazie al quale oggi siamo quello che siamo, nel bene e nel male.
La memoria è importante perché è il nostro modo di riconoscerci. La memoria è legata alla riconoscenza perché la riconoscenza è una sorta di ritorno, tornare a qualcosa che ci è accaduto e riconoscerlo, magari in virtù anche del tempo che è passato e di una maggiore consapevolezza di quello che siamo.
Ecco, riconoscere è custodire anche ciò che è fuggito, cioè ciò che è scomparso, ciò che non ha più alloggio nel presente ma non per questo va disconosciuto.
Se ti chiedessi di dire a un lettore di cosa parla il tuo romanzo, cosa diresti senza svelare troppo?
Direi che il romanzo è una storia di dolore. È una storia che racconta come un dolore si può superare se viene vissuto e non se viene evitato. Come diceva Pavese, un dolore può essere superato solo attraversandolo.
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Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.
Il mio impegno nel giornalismo d’inchiesta mi è valso il “Premio Cronista 2023” del Gruppo Cronisti Liguri-FNSI per un mio articolo sul crollo di Ponte Morandi. Sono co-autrice di diversi reportage tra cui il docu “DigaVox” sull’edilizia sociale a Genova; il cortometraggio “Un altro mondo è possibile” sul sindaco di Riace, Mimmo Lucano; “Terra a perdere”, un’inchiesta sui poligoni NATO in Sardegna.