La testimonianza: “Ho visto aziende che confezionavano camicie utilizzare lo stesso tessuto per cucire mascherine. Starei molto attento a usarle negli ospedali o in situazioni di pericolo”
Sono quasi le nove di sera quando Antonio, nome di fantasia, accetta di parlare. Con la voce stravolta dalla stanchezza e dall’angoscia racconta: ”Solo oggi avrò ricevuto almeno 200 email da persone o Enti alla ricerca di mascherine, ma non ce ne sono in giro. Sono arrivate infermiere a piangere, chiedendo di poterne avere. Carabinieri che indossavano mascherine da ferramenta, quelle che ti proteggono dalla polvere quando fai lavori di bricolage in casa, ma niente! Una pena!”
Antonio gestisce una piccola impresa che produce, fra le altre cose, le bramate mascherine. Un settore pochissimo sviluppato in Italia, perché necessita di parecchia manodopera, pertanto appannaggio soprattutto di Cina, india e Pakistan.
In questo contesto la sua azienda ha saputo ritagliarsi una fetta di mercato puntando soprattutto sulla qualità e la tecnologia. Loro producono il materiale filtrante, quello capace di catturare l’aerosol presente nell’aria, mentre il confezionamento del prodotto finito avviene nella Repubblica Ceca. Ed è qui che si è fermato il prodotto, “il nostro laboratorio che non trasforma solo per noi, ma anche per il proprio Paese, è stato contingentato. Il funzionario governativo controlla tutto ciò che viene prodotto e lo blocca per il Ministero della Salute Ceca. Esce qualcosa, ma con il contagocce. La politica italiana se n’è accorta in questi giorni, ma la chiusura c’è stata quasi un mese fa. Allo stesso modo, dalla Germania non arriva più nulla da tempo. Ora si incomincia a parlare di collaborazione perché il problema è arrivato anche da loro, ma la chiusura c’è stata”.
Antonio ne parla con la reale apprensione di chi in questi giorni sta vivendo l’emergenza in prima fila, senza specularci ed anzi regalando gli ultimi 5.000 pezzi che aveva in magazzino all’ospedale di Bergamo. Anche per questo chiede l’anonimato.
Le famose mascherine FFP1, FFP2 e FFP3 – spiega – sono realizzate a più strati. Le migliori sono quelle caricate elettrostaticamente, dove la fibra è in grado di catturare l’aerosol presente nell’aria e con esso i batteri. In questo caso il filtro funge da calamita e permette una buona traspirabilità. Oppure si usa il “metodo del setaccio”, cioè un filtro a maglie fitte che impedisce all’aerosl di passare. Il comfort per chi lo utilizza è decisamente minore perché richiede una ventilazione maggiore.
Esattamente come il latte – prosegue Antonio nella sua spiegazione – le mascherine hanno una data di scadenza che si riferisce alla carica elettrostatica. Quindi più lunga è la vita di un prodotto e minore sarà la sua qualità, per quanto comunque sempre efficace e certificata, perché si baserà maggiormente sul metodo del setaccio e meno sulla carica elettrostatica. E viceversa ovviamente.
Fino a pochi giorni fa in giro non si trovava nulla, se non prodotti non certificati “e quelli non servono a niente” precisa Antonio.
Poi l’emergenza ha fatto saltare tutti i paletti e sulla certificazione ora si procede in deroga. Molte imprese tessili si sono riconvertite e hanno avviato una produzione “di guerra”. A queste aziende si chiede di inviare un’autocertificazione all’Istituto Superiore di Sanità con le caratteristiche tecniche del loro manufatto e dopo un paio di giorni dovrebbero ricevere il via libera, appurata la conformità del prodotto.
“Io non so a quali trattamenti vengano sottoposti questi materiali – puntualizza Antonio – ma so quali sono le procedure necessarie per ottenere la certificazione e se bisogna fare tutti questi test per lavorare nel settore medicale un motivo c’è, altrimenti sarebbe stato fin troppo facile da subito. In questi giorni ho visto aziende che confezionavano camicie utilizzare lo stesso tessuto per cucire mascherine. Così è come mettersi un panno davanti al naso. Ora io non so quali siano le proprietà filtranti e anticontagio di questi tessuti, qualcosa sicuramente fanno, però starei molto attento a utilizzarli negli ospedali o in situazioni di pericolo”.
Mascherine che possono andare bene al singolo per uscire a fare una passeggiata (ma anche in questo caso – insiste Antonio – meglio tenere la distanza di sicurezza e tutte le altre misure che ci hanno insegnato in questi giorni), che forse non verranno distribuite direttamente al personale sanitario degli ospedali, ma che rischiano di finire a fasce di lavoratori più deboli, che si muovono comunque in ambienti saturi di virus, come gli addetti alle pulizie delle sale di rianimazione o gli operatori delle case di riposo.
In emergenza va bene tutto e ben venga la riconversione delle aziende, ma per Antonio esiste una via più sicura: “Stiamo ricevendo tantissime offerte dalla Cina di mascherine certificate e certificate da istituti Italiani. Le autorità dovrebbero solo organizzare la spedizione, visto che i corrieri nazionali e internazionali al momento sono intasati. E poi sbloccare quelle che in questo momento sono ferme in dogana”.
Chiara Pracchi
Giornalista per passione, mi occupo soprattutto di mafie e di temi sociali. Ho collaborato con PeaceReporter, RadioPopolare, Narcomafie, Nuova Società e ilfattoquotidiano.it.
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