Il 24 luglio 1849 nasceva a Genova la prima scuola per palombari. Oggi, nella cornice genovese del Festival della Scienza, saliamo a bordo del cacciamine Chioggia per intervistare il Capo di III Classe Palombaro Alessandro Satta e per raccontarvi i segreti di un artificiere del mare.
Come si diventa palombaro?
Per diventare palombaro della Marina Militare si segue un corso di un anno in cui l’allievo sarà sottoposto a duri sacrifici: solo il 30% arriva a concluderlo.
Durante questo periodo l’allievo è sottoposto dagli istruttori a stress sia fisico che psicologico per capire se sia effettivamente tagliato per questo tipo di mestiere che comporterà il dover operare con esplosivi a una certa profondità, sotto il livello del mare.
Lei, quindi, è anche artificiere. In che cosa consiste questa sua doppia attività?
Veniamo chiamati a bonificare ordigni bellici sottomarini che controcarichiamo con altro esplosivo.
È più pericoloso un residuato bellico della II guerra mondiale o un ordigno moderno?
Sono entrambi molto pericolosi. Gli ordigni più vecchi mantengono inalterate le loro caratteristiche perché il tritolo presente all’interno resta comunque attivo dopo decenni sott’acqua, anche se i congegni che servono per far detonare le mine sono completamente o in parte consumati e corrosi.
Le mine moderne sono “intelligenti” e per rispondere a queste nuove esigenze di sicurezza l’apparecchiatura del palombaro deve essere all’avanguardia. Ci può spiegare le particolarità dell’attrezzatura Viper?
Consiste in un autorespiratore dotato di un filtro in calce sodata che trattiene la Co2 e ricicla la miscela respirata. Questa non viene liberata totalmente all’esterno e dunque l’apparecchiatura produce meno bolle di un autorespiratore ad aria normale ed è più silenziosa. Il Viper è anche un’attrezzatura amagnetica e non sarà notata dai sensori dei moderni congegni ad attivazione magnetica e acustica.
È questo il motivo per cui i cacciamine hanno uno scafo monolitico in vetroresina.
Qual è la massima profondità di immersione che ha raggiunto?
Siamo abilitati fino a 60 metri, che raggiungiamo con l’apparecchiatura ASAS. È alimentata dalla superficie con un ombelicale che trasmette le comunicazioni e l’aria, in una riserva illimitata.
È la stessa che è stata utilizzata per le immersioni sul relitto della Costa Concordia?
Esatto. È una muta stagna che ci permette di lavorare in ambienti contaminati perché l’operatore non verrà a contatto con l’acqua.
Svolge anche attività che non siano prettamente subacquee?
I palombari sono tecnici iperbarici. Collaboriamo con gli ospedali e ovunque ci sia necessità: siamo intervenuti in aiuto della popolazione civile anche ad Haiti.
Cosa l’ha spinta a fare questa scelta di diventare palombaro?
Di fondo c’è l’amore e il rispetto per il mare. Poi, più che un lavoro, la considero una scelta di vita in quanto è un’attività estremamente pericolosa e gravosa sia per la mente che per il fisico.
Siamo spesso lontani dalla famiglia e dagli affetti perché siamo chiamati a operare un po’ ovunque, sul territorio nazionale e all’estero.
Quanto dura la carriera operativa di un palombaro?
Praticamente fino alla pensione. Ho colleghi che, superati cinquanta, continuano a immergersi con i più giovani. Questo è lo spirito di chi vive il mare nella sua bellezza, nel suo essere imprevedibile, nelle sue continue sfide.
Simona Tarzia
Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.
Il mio impegno nel giornalismo d’inchiesta mi è valso il “Premio Cronista 2023” del Gruppo Cronisti Liguri-FNSI per un mio articolo sul crollo di Ponte Morandi. Sono co-autrice di diversi reportage tra cui il docu “DigaVox” sull’edilizia sociale a Genova; il cortometraggio “Un altro mondo è possibile” sul sindaco di Riace, Mimmo Lucano; “Terra a perdere”, un’inchiesta sui poligoni NATO in Sardegna.