Genova sonnecchia da tempo immemorabile in una sonnolenza acida. Arranca senza rimedio, incapace di far muovere il tempo.
Di questo immobilismo e di altre difficoltà parliamo con Enrico Musso, consigliere comunale per la Lista Musso e professore ordinario di Economia dei Trasporti nell’Università di Genova.
È finita la sua esperienza politica?
Questa è una cosa che devono dire gli elettori e, in effetti, lo hanno detto. Mi sono presentato come candidato sindaco due volte e due volte mi hanno bocciato preferendomi Marta Vincenzi la prima volta e Marco Doria la seconda. Quindi direi che il giudizio è chiaro e inequivocabile.
Cosa non rifarebbe?
Una cosa che mi è capitato di fare perché l’ho ritenuta necessaria ma non rifarei è votare dei provvedimenti molto ampi, come spesso avviene in Parlamento, che complessivamente sono buoni provvedimenti ma che contengono delle cose oggettivamente sbagliate.
Da un punto di vista dell’interesse generale ho ritenuto che fosse preferibile votare a favore. Ogni singola cosa sbagliata ti può essere imputata fino alla fine dei tempi e così è stato.
Quando si è candidato sindaco la prima volta rappresentava il nuovo. Che cosa ne pensa di Simone Regazzoni, che si definisce il nuovo di oggi?
Non lo conosco. Devo dire che, in via di principio, sono sempre favorevole a una persona che si vuole impegnare al servizio dei cittadini. Senza conoscerlo, ho un rilievo critico da fargli: io, per pormi come nuovo, mi sono sganciato da tutti e sono andato avanti da solo con una lista civica, la Lista Musso. Fare il nuovo cercando di essere l’esponente di quelli che hanno governato per vent’anni… Se la scorsa volta mi fossi candidato come esponente del centro sinistra a Genova, avrei preso il 70% dei voti e non il 40% e rotti. In vent’anni abbiamo visto tante persone che, di volta in volta, si sono proposte come “la nuova stagione” ma erano comunque esponenti di chi aveva sempre governato.
Un giudizio di merito su Marco Doria: ha fatto veramente il possibile?
È una persona che si è impegnata molto. Verrebbe da collegare questa risposta a quella immediatamente precedente. Si è candidato come esponente di uno schieramento molto articolato, c’erano otto liste che lo sostenevano, otto liste che avevano tutte qualcosa da chiedergli in cambio. E poi gliel’hanno chiesto.
Il suo immobilismo, più che una caratteristica umana e personale, perché non credo che sia così, è scaturito da un gioco di scarsissimi margini di manovra che gli sono venuti dalla rete molto ampia e articolata di alleanze. Quelle stesse alleanze che lo hanno portato alla poltrona di sindaco.
È stato corteggiato da altre forze politiche?
Sì, come si può intuire dal fatto che le persone che entrano in politica, di solito, non ne escono mai più. Anch’io ho ricevuto varie proposte di riciclaggio e raccolta differenziata. Ma non si può essere un uomo per tutte le stagioni.
Un giudizio sulla riforma costituzionale.
Pensando a quanto dicevo prima, mi verrebbe da rispondere che oggi non voterei più una cosa perché complessivamente è più positiva che negativa. Ma non lo dico perché secondo me questa riforma non è neppure un po’ più positiva.
Di insopportabilmente negativo c’è il fatto di averla venduta a tutti, e avviene tuttora, come la grande mossa per la riduzione della spesa pubblica. Calcolata da dati ufficiali, la riduzione della spesa legata alla modifica del funzionamento del Senato, come previsto dalla riforma, vale lo 0,06 per mille della spesa pubblica.
È come se una famiglia, con 2.000 euro di spese mensili, decidesse di tirare la cinghia e risparmiasse 0,12 euro al mese. Al mese, non al giorno. L’ordine di grandezza è questo.
Poi si può raccontare quello che si vuole ma a questo punto è colpa di chi ci crede.
Cosa ne pensa della nuova composizione del Senato? Il fatto che i sindaci, ad esempio, si trovino a fare un doppio lavoro?
Io ho avuto già difficoltà a fare il consigliere comunale. Se avessi fatto il sindaco, credo, non avrei avuto un minuto per respirare. L’idea che un sindaco o un consigliere regionale faccia il parlamentare nei ritagli di tempo, non sta né in cielo né in terra. Serve solo per rendere ancorata alla realtà quella riduzione di spesa di cui dicevo prima, che è sempre di 0,12 euro al mese.
Quali le priorità per Genova, per uscire da questo immobilismo primordiale?
La priorità, per essere tale, deve essere una. Una è il lavoro, perché è dal lavoro che poi viene tutto il resto.
Viene che le persone hanno reddito, che le imprese ci sono, che pagano le tasse, che la quota di tasse che vanno al comune è maggiore, che si possono fare più cose con i soldi pubblici perché sono di più. Non dimentichiamo che questi soldi pubblici sono tali perché arrivano dalle tasche dei contribuenti, non crescono sugli alberi dei giardini pubblici.
Con il lavoro si rimette in moto tutto questo.
E come lo rimettiamo in moto il lavoro?
Bisogna che le imprese, gli investitori e i capitali, cose che esistono nel mondo!, ricomincino a considerare Genova sulla carta geografica. Questo vuol dire avere delle istituzioni che rispondono, che diano infrastrutture, spazi, servizi, la certezza dei tempi amministrativi…
Accennava alle infrastrutture. Lei era favorevole alle grandi opere, pensiamo alla Gronda di Ponente. Alla luce delle ultime vicende del COCIV, come pensa si potrebbe arginare il problema delle tangenti?
Essendo uno studioso di trasporti, io non sono favorevole alle grandi opere. Sono favorevole alle grandi opere che servono. Potrei farvi un lungo elenco di grandi opere che non servono a niente.
Per esempio?
Il ponte sullo Stretto. Ho molte riserve anche sulla Torino-Lione, per scendere a qualche cosa che si sta, invece, facendo. Sul Terzo Valico, di cui ormai si parla da più di un secolo, sono favorevole per una serie di motivi noti e che non sto a ripetere qui.
Non ha senso l’idea che in questa, così come in altre grandi opere che servono, appena si trova qualcuno che rubacchia, che succede sempre in Italia, qualcun’altro dica “fermiamo quest’opera che serve”. Recentemente ci sono stati diversi arresti per appalti truccati nel porto della Spezia ma a nessuno è venuto in mente di dire “chiudiamo il porto” o “chiudiamo i porti italiani perché c’è qualcuno che ruba”. Bisogna distinguere le opere che servono, farle e dotarsi di sistemi per cui i ladri vadano in galera. In Italia, con tutte le riforme che si continuano a fare, questa non è stata ancora avviata in modo adeguato.
Secondo lei è più un problema di controllo da parte delle forze dell’ordine che non della politica? O dovrebbe essere la politica a intervenire? Questo delle tangenti è un problema annoso: sono sempre le stesse le aziende che ottengono gli appalti.
È un problema di controllo della politica e sulla politica che non è mai stato efficace perché le regole che abbiamo in questo Paese sono state scritte da politici che hanno inteso salvaguardare sé stessi prima di tutto. C’è un sistema di regole molto autotutelante che alla fine i giudici devono rispettare.
Il famoso tema della prescrizione, che tutti da decenni dicono di voler riformare ma che si continua a non riformare, per esempio. Fa finire nel nulla i processi di questo tipo perché sono molto lunghi e complessi e, quasi sempre, con dei buoni avvocati vanno su tempi che sono superiori a quelli stabiliti dal legislatore per la prescrizione.
Lei è un esperto di trasporti e portualità: cosa dovrebbe cambiare per il porto di Genova?
In generale credo che nelle politiche portuali, in Italia, non si sia mai tenuto abbastanza conto dell’esigenza di coordinamento delle infrastrutture. Non serve a niente fare un porto da milioni di container se poi non sai come fare andar via la merce dalla zona portuale o dalla città portuale. Se vuoi fare concorrenza agli altri porti su distanze di cinque, sei, novecento o mille chilometri, occorre la ferrovia e non i camion.
Questo è un primo aspetto.
Una questione più generale della portualità italiana è che spesso ha mirato a difendere le rendite di posizione, talvolta di posizione geografica, talvolta di categorie o di associazioni. Mentre la portualità oggi è un business internazionale che deve conformarsi a standard di competitività, di innovazione e di qualità del servizio stabiliti dal mercato internazionale.
Altrimenti il mondo salta l’Italia.
Dal punto di vista globale della geografia dei traffici non cambia granché, noi invece ci rimettiamo e la nostra bilancia commerciale anche.
Parlando di infrastrutture, ritiene che il Terzo Valico sia un’opera necessaria per il nostro porto?
Sì. Proprio per il fatto che un porto come quello di Genova, importante sia dal punto di vista degli spazi a terra che del pescaggio – è uno dei pochi porti del Mediterraneo attrezzato a ricevere le navi delle dimensioni attuali – non può essere strozzato da un sistema ferroviario che risale al XIX secolo. Noi diciamo Terzo valico perché i primi due sono l’uno della metà del 1800, l’altro del 1870. Un porto di queste dimensioni e, in generale il sistema dei porti liguri, se vuole traguardare un mercato che è almeno il Nord Italia e magari la Svizzera e magari qualcosa di più, deve arrivarci col treno. Non si può pensare di intasare la costa ligure e poi smaltire il tutto con i camion, che inquinano tantissimo questa zona e tutta la Pianura Padana che attraversano.
In merito ai binari ferroviari, bisognerebbe far qualcosa anche all’interno del porto? Chi è contrario al Terzo Valico ritiene che non ci siano binari sufficienti – si parla addirittura di un solo binario – e che quindi l’opera non abbia un senso da un punto di vista logistico.
Non fare il tunnel ferroviario perché i binari delle manovre all’interno del porto sono da risistemare, sarebbe come dire “non mettiamo questa luce perché abbiamo una lampadina che non funziona”. Cambierai anche la lampadina. Insomma, bisogna vedere qual è il sistema che va bene complessivamente. E quello che va bene complessivamente è un sistema ferroviario, non un sistema su gomma. Questo è quello a cui dobbiamo pensare, è il discorso del coordinamento che si faceva prima. Con questo sistema si può pensare di essere un porto competitivo che mantiene il suo ranking sui mercati mondiali e le sue ricadute occupazionali dirette e indirette, che per i porti sono tutt’ora immense. Così Genova può aspirare a mantenere quel ruolo di capitale mondiale della portualità e della logistica che ha perso praticamente in tutti gli altri settori. Non dimentichiamo che in questo 2016 l’apertura del tunnel ferroviario del Gottardo ha completato il famoso corridoio trans-europeo cosiddetto “dei due mari”, quello Genova-Rotterdam, tranne che per questo valico appenninico. Il rischio è che funzioni esattamente al contrario: cioè che le merci da e per la Pianura Padana siano risucchiate verso il Nord Europa ancor più di quanto già non avvenga.
Cosa prenderebbe come esempio da un porto straniero? Qual è la cosa che non c’è e che le piacerebbe vedere a Genova?
Quello che più mi colpisce, non dovunque, è che nei porti si respira un senso di appartenenza non solo alla comunità portuale ma anche alla città, al territorio cui effettivamente il porto appartiene. Questo ha una serie di conseguenze dal punto di vista dell’agire nell’interesse comune della città, dei lavoratori, delle imprese, dei residenti, dell’ambiente e così via.
In Italia non succede.
Ognuno sta a difesa del proprio orticello, difficilmente in una logica di bene comune.
Quello di bene comune, secondo me, è un concetto che in Italia si sta del tutto sfarinando, non solo in campo portuale.
Simona Tarzia
Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.
Il mio impegno nel giornalismo d’inchiesta mi è valso il “Premio Cronista 2023” del Gruppo Cronisti Liguri-FNSI per un mio articolo sul crollo di Ponte Morandi. Sono co-autrice di diversi reportage tra cui il docu “DigaVox” sull’edilizia sociale a Genova; il cortometraggio “Un altro mondo è possibile” sul sindaco di Riace, Mimmo Lucano; “Terra a perdere”, un’inchiesta sui poligoni NATO in Sardegna.