La notizia è di quelle importanti. Entro l’11 settembre 2021, gli Stati Uniti e la NATO ritireranno tutte le loro truppe dall’Afghanistan e porranno fine al conflitto più lungo della storia americana.
Ma prima di tentare un’analisi, per quanto possa essere ostico farlo, bisogna leggere la guerra attraverso i numeri.
L’Afghanistan in numeri
Le operazioni militari americane sono durate 20 anni. In totale le truppe straniere in terra afghana sono state quasi 10 mila e di queste un terzo statunitensi. Il costo dal 2001 è stato di 2,25 trilioni di dollari e in diciannove anni, e in termini di vite le perdite ci parlano di 46mila morti. Per le forze di liberazione/occupazione i morti sono stati 3.600 e, ad oggi, il 70% del territorio afghano è instabile o sotto l’occupazione talebana.
Gli accordi di Doha
L’accordo bilaterale tra gli USA e i Talebani è l’esito dei negoziati cominciati nel settembre 2018, su iniziativa di Donald Trump, dal negoziatore degli Usa, l’afghano Zalmay Khalilzad.
Trump ha voluto negoziare un accordo bilaterale, escludendo, però, il governo di Kabul. I Talebani hanno così ottenuto il ritiro delle truppe, impegnandosi a interrompere i rapporti Al-Qaeda e a iniziare un dialogo diplomatico con i politici afghani. Dialogo mirato a raggiungere il cessate il fuoco.
Il governo Afghano in difficoltà
Trump ha quindi ottenuto la sospensione delle ostilità tra USA e Talebani, ma così facendo ha messo il governo afghano in forte difficoltà. Quando le truppe americane si ritireranno non ci saranno mediatori internazionali per le trattative tra il governo di Ashraf Ghani e i talebani.
C’è in ballo, ad esempio, il rilascio dei 5.000 detenuti Talebani in cambio dei 1.000 prigionieri governativi. Scambio previsto dall’accordo di Doha tra Usa e Talebani, di cui però Kabul non è firmatario. Insomma un pasticcio.
Ma gli accordi di Doha non sono sufficienti
Ma se è stato facile per l’esercito americano arrivare in Afghanistan con tante buone intenzioni e con la spocchia di chi è armato di tutto punto e vede davanti a sé solo capre e pochi straccioni, a quanto pare andarsene da quella terra inospitale non sarà un gioco da ragazzi. Infatti le operazioni di ritiro sono state ostacolate da continue scorribande dei talebani e richiederanno altri quattro mesi per essere completate dopo la scadenza iniziale del 1 maggio.
Cosa c’entra la Turchia?
In effetti, in questa partita complicata entra anche la Turchia che si è dichiarata pronta a prendere parte alla mediazione per la pace in Afghanistan e nella regione, come ha dicharato Ömer Çelik portavoce del partito AK che governa il paese. “L’Afghanistan è un paese molto importante per noi”. La Turchia è pronta a essere coinvolta in tutti i tipi di sforzi di mediazione per la pace in Afghanistan e nella regione”.
Ankara in Afghanistan dal 2003
La presenza di Ankara in Afghanistan risale al 2003, a seguito di alcuni attentati, effettuati con camion carichi di esplosivo, a Istambul, e attribuiti a Al-Qaeda. Una legge del gennaio 2015 ha permesso alla Turchia di inviare truppe in Afghanistan a sostegno della missione NATO “Resolute Support”. A dicembre 2020 Ankara ha prolungato la missione delle sue truppe stanziate a Kabul di altri 2 anni. Nonostante le insistenze degli alleati statunitensi, l’esercito turco non è mai coinvolto in scontri armati ma preferisce intervenire come mediatore su questioni legate al terrorismo tra Afghanistan e Pakistan. Ad oggi le accuse principali del governo di Kabul ricadono sul Pakistan accusato di nascondere e proteggere i terroristi talebani.
Il ruolo della Turchia e i suoi rapporti privilegiati con i talebani
A tale proposito, è interessante sottolineare il ruolo di guida per i Paesi musulmani del presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan. In un’intervista, Gulbuddin Hekmatyar, mujahideen afghano e capo del partito Hezb-e-Islami, aveva affermato di aver tenuto incontri privati con i talebani che avevano dichiarato il proprio interesse riguardo ad un ruolo maggiore della Turchia nei colloqui di pace afghani. Ankara era stata definita una “sede neutrale” ideale per le trattative “Ho un messaggio per il popolo turco: gli afgani vi amano, amano il vostro brillante passato, e ci aspettiamo che voi facciate rivivere la gloria di quei tempi e il vostro ruolo”, aveva dichiarato Gulbuddin Hekmatyar, in un probabile riferimento al passato ottomano. “Altri Paesi musulmani si sono trasformati in basi militari per gli stranieri. Gli arabi sono divisi e hanno perso la gloria e il prestigio del passato. Preghiamo per il successo del popolo turco e del suo presidente”.
Il 70% del territorio è fuori controllo
Tra queste operazioni di mediazione internazionale dove ognuno cerca di incassare più possibile, c’è una questione che non va sottovalutata. Il 70% del territorio del paese è instabile o sotto il pieno controllo dei talebani. Le forze di sicurezza afghane non sono autosufficienti e il ritiro delle truppe statunitensi e della NATO lascerà un governo, già debole, ancora più isolato e vulnerabile. Un’ulteriore preoccupazione è rappresentata dai milioni di rifugiati e sfollati e dall’80% della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà. In questo contesto, i gruppi terroristici, Al-Qaeda e IS potrebbero avere un’opportunità importante per riorganizzarsi e acquisire nuovo slancio.
Chi prenderà il posto degli USA?
Ma altri Paesi come Pakistan e Cina potrebbero approffittare del ritiro delle truppe americane e consolidarsi in Afghanistan. Il rischio in assoluto più probabile è che l vuoto lasciato dalle truppe di occupazione della NATO scateni una guerra civile che opporrebbe l’attuale governo a talebani e gruppi militari comandati da ex mujahedin. E la Turchia sarà il collante per le popolazioni musulmane.
Di certo, a questo punto, gli Usa hanno perso e i talebani hanno vinto. Di nuovo.
fp
Spirito libero con un pessimo carattere. Fotoreporter in teatro operativo, ho lavorato nella ex Jugoslavia, in Libano e nella Striscia di Gaza. Mi occupo di inchieste sulle mafie e di geopolitica.