Un’analisi di Franco Danieli, già Viceministro degli Affari Esteri
Quasi tutti i leader dei paesi occidentali sono rimasti sorpresi dalla travolgente avanzata dei talebani e dalla fine ingloriosa e repentina del “governo legittimo”. Lo scenario ha evidenziato effettivamente una gravissima incapacità di analisi e di previsione da parte delle agenzie di intelligence di mezzo mondo e conseguentemente da parte dei governi di riferimento.
Una strategia superficiale
Una gran parte di responsabilità, per quanto oggi vediamo, è da attribuire alla strategia adottata dagli USA (quale nazione capofila della coalizione) in Afghanistan nel corso di questi lunghi anni.
Una prassi astratta, codificata nelle direttive impartite alle forze sul campo, che prescindeva da ogni tentativo di conoscenza della reale situazione del paese, delle condizioni sociali, culturali, economiche della popolazione, con la lodevole eccezione della presenza italiana e di qualche altro attore europeo.
La gestione degli Stati Uniti d’America del “Dossier Afghanistan” è stata per la quasi totalità di natura militare; il resto, l’attività di “nation building” è stata parte marginale e peraltro malamente realizzata. La riprova è la strutturazione del loro impegno economico: 2.261 miliardi di dollari per la parte militare, di cui: quasi 1000 miliardi per operazioni militari, 530 miliardi per gli interessi sui debiti contratti, 296 miliardi per le cure ai veterani rientrati, 443 miliardi di aumento del bilancio del dipartimento per la difesa per le attività connesse alla guerra. (fonte: Watson Institute – Brown University).
La spesa per la “ricostruzione”
Il totale speso invece per la “Ricostruzione” dell’Afghanistan ammonta nel ventennio a 143,27 miliardi di dollari (fonte: Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction) e per l’esattezza così ripartito:
ASFF: Afghanistan Security Forces Fund: 82,90 miliardi di dollari (per l’esercito e la polizia afghana: 33 mld per stipendi, 18,3 mld per equipaggiamento, 9,2 per infrastrutture, 8,3 addestramento…)
CERP: Commanders’ Emergency Response Program: 3,71 miliardi di dollari
DICDA: Drug Interdiction and Counter Drug Activities: 3,28 miliardi di dollari
ESF: Economic Support Fund: 21,10 miliardi di dollari
IDA: International Disaster Assistance: 1,15 miliardi di dollari
INCLE: International Narcotics Control and Law Enforcement: 5,42 miliardi di dollari
MRA: Migration and Refugee Assistance: 1,53 miliardi di dollari
NADR: Non-Proliferation, Antiterrorism, Demining, and Related Programs: 0,88 miliardi di dollari
Decodificando: quando si parla di ricostruzione si inserisce nel calderone un po’ di tutto, dalle spese per l’esercito nazionale, alla lotta alla droga, all’antiterrorismo, e così via.
Investito per gli afghani solo lo 0,11% della spesa totale
Sul versante umanitario vero e proprio: il Bureau of Humanitarian Assistance (BHA) dell’USAID, che gestisce i fondi di assistenza internazionale per i disastri (IDA), in stretta cooperazione con, tra gli altri, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF), il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite (WFP) e l’Organizzazione della Sanità (OMS) ha comunicato che sono stati stanziati più di 1,15 miliardi di dollari in Afghanistan dal 2002 al 31 dicembre 2020.
L’Ufficio per la popolazione, i rifugiati e le migrazioni del Dipartimento di Stato (PRM) gestore del fondo Migration and Refugee Assistance (MRA) che finanzia programmi per proteggere e assistere i rifugiati, le vittime di conflitti, gli sfollati interni, gli apolidi e i migranti vulnerabili, in cooperazione con l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per Rifugiati (UNHCR), altre organizzazioni internazionali e varie organizzazioni non governative (ONG) ha comunicato che gli stanziamenti cumulativi dal 2002 fino al 31 dicembre 2020 ammontano a quasi 1,53 miliardi di dollari.
Su 2.261 miliardi di dollari di spese totali nei venti anni, 2,68 sono stati destinati ad interventi di natura prettamente umanitaria; lo 0,11 per cento circa
Poche risorse, quindi, sono state usate per accrescere il tenore di vita della popolazione e quel poco si è concentrato essenzialmente nelle grandi città; è qui infatti che si sono visti i miglioramenti nell’assistenza sanitaria, nella salute materna, nell’istruzione. È nelle grandi città che è aumentato il reddito pro capite (in gran parte come corrispettivo per attività di supporto alle forze militari) così come si è sviluppata la consapevolezza dei diritti fondamentali a partire dalla parità di genere ed è nato un sistema diffuso di informazione indipendente. Nella gran parte delle aree rurali però quasi nulla è cambiato dal 2002.
L’incremento della produzione di oppio
Poi ci sono delle vere e proprie situazioni paradossali: l’International Narcotics Control and Law Enforcement (INCLE) del Dipartimento di Stato USA che attraverso il Bureau of International Narcotics and Law Enforcement Affairs (INL) sviluppa politiche e gestisce programmi per combattere la produzione ed il traffico di stupefacenti, compresa la formazione di diverse forze nazionali antidroga ha comunicato che Il finanziamento cumulativo per l’Afghanistan erogato dal 2002 al 31 dicembre 2020 ammonta a 4,59 miliardi di dollari. Ebbene, durante il conflitto la produzione di oppio in Afghanistan è passata dalle circa 3000 tonnellate del 2002 alle circa 6.000 del 2020 e gli ettari coltivati dai 74.000 del 2002 ai 224.000 del 2020 (fonti: MCN/UNODC- NSIA/UNODC).
Il terzo intervento militare più costoso della storia USA
Guardando alle statistiche l’intervento militare in Afghanistan è stato il terzo più costoso conflitto della storia degli Stati Uniti, preceduto solo dalla Seconda Guerra Mondiale e dalla guerra in Iraq (fonte: howmuch.net su dati del congresso americano) ed è stato anche uno dei più lunghi della loro storia.
Alla spesa USA vanno poi sommate anche quelle degli altri paesi della coalizione che sono state valutate in circa 30 miliardi di dollari per il Regno Unito, 19 per la Germania e 8,5 per l’Italia, etc. (fonte MIlex e report parlamentari).
Ma come in ogni guerra alla fine si contano anche le perdite di vite umane: 78.314 esercito e polizia afghana, 71.344 civili, 3.936 contractor Usa, 2.448 esercito Usa, 1.144 forze della Coalizione (e tra questi i 53 italiani), 685 personale umanitario e giornalisti, 84.191 talebani e loro alleati. (Fonte: Brown University).
Alla luce di questi dati è incredibile che qualcuno sia rimasto sorpreso dalla repentina dissoluzione del sistema statuale afghano e dalla rapidissima affermazione dei talebani e continui a porsi domande sul perché sia stato possibile tutto ciò.
Un analista alle prime armi o ancora meglio un operatore umanitario sul campo avrebbe immediatamente spiegato che tutta la straordinaria strategia di “nation building” dispiegata in venti anni si sarebbe sciolta come neve al sole. Ma purtroppo sempre più frequentemente le analisi di intelligence si basano sui risultati astratti prodotti dalle elaborazioni informatiche con l’intelligenza umana grandemente marginalizzata.
L’analisi impietosa del SIGAR
Un’analisi altrettanto impietosa è quella svolta dal SIGAR nel suo ultimo report: “Cosa dobbiamo imparare: lezioni da vent’anni di ricostruzione Afghanistan”; un rapporto redatto da questa agenzia indipendente, creata dal Congresso nel 2008, con il compito di analizzare e supervisionare tutto il lavoro delle diverse agenzie USA impegnate in attività di ricostruzione. Sono state identificate lezioni chiave in sette aree. Un rapporto di grande interesse e molto approfondito cui si rimanda per il dettaglio (https://www.sigar.mil/interactive-reports/what-we-need-to-learn/index.html) che in definitiva si riassume nella seguente affermazione: “Il governo degli Stati Uniti semplicemente non era attrezzato per intraprendere qualcosa di così ambizioso in un ambiente così intransigente…”.
All’origine del caos
Volendo poi andare a ritroso negli anni, alle origini del caos, bisognerebbe ricordare i rapporti instaurati tra gli Usa e i Talebani con il coinvolgimento di Pakistan e Arabia Saudita, per contrastare l’occupazione sovietica, con la conseguente forte affermazione nel Paese della corrente islamica sunnita Deobandi, e così via sino ad arrivare al negoziato diretto a Doha tra l’Amministrazione Trump e gli stessi Talebani, con l’esclusione del Governo legittimo. Una trattativa essenzialmente basata sull’impegno da parte dei Talebani a non ospitare nei loro territori basi e membri di Al Qaeda, un impegno d’onore (sic) potremmo definirlo.
Questo recente successione di eventi ha aggravato lo scenario afghano già segnato da corruzione endemica, sia a livello centrale che locale, e delegittimazione delle già precarie strutture statuali, infine, il ritiro ordinato da Biden, sulle contraddittorie informazioni dell’intelligence USA, ha provocato un vero disastro geopolitico ed umanitario.
Adesso sarà necessario riordinare le idee e fare i conti con la nuova realtà medioevale che governerà il Paese, con le nuove strategie delle potenze globali e di quelle regionali che già si apprestano a colmare i “vuoti” lasciati (come è stato per l’Iraq, la Siria, la Libia…), con il dramma dei profughi, con lo spettro di una rinascita di fenomeni terroristici e così proseguendo.
Però qualcuno contento per come è andata c’è sempre, come in tutte le guerre: il sistema della industria bellica…chissà forse è anche per questi interessi che le guerre moderne durano sempre di più.
Franco Danieli
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