La sfida tra i partiti era cominciata in una settimana cruciale: il trentennale della Strage di Capaci
Perdente, schiacciata da secoli di carcere prescritti ai boss, Cosa nostra – o meglio, la sua ombra – è stata il convitato di pietra della campagna elettorale a Palermo.
“Sussistono urgentissime esigenze di tutela di beni primari in ragione della prossima competizione elettorale del 12 giugno 2022: in assenza di adeguate misure cautelari, difatti, l’esercizio del diritto-dovere del voto di un’estesa parte dell’elettorato diverrebbe merce di scambio, sottratto al principio e al metodo democratico”.
Così l’ordinanza con cui il gip di Palermo, Alfredo Montalto, ha dato il via libera all’arresto di Pietro Polizzi, candidato di Forza Italia al Consiglio comunale del capoluogo siciliano, mette il sigillo giudiziario a una sfida segnata fin dall’inizio dalle polemiche sulla presenza e il peso delle “famiglie” mafiose sul voto di domenica.
La sfida tra i partiti era cominciata in una settimana cruciale: il trentennale della Strage di Capaci, con tutto il carico simbolico e emotivo che ha per la Sicilia e Palermo in particolare. Erano stati Maria Falcone, sorella del magistrato, e Alfredo Morvillo, magistrato anch’egli e fratello di Francesca Morvillo, a chiedere ai candidati sindaco di tenersi lontani da “personaggi condannati per collusioni mafiose”.
Era un riferimento chiaro all’appoggio di Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri a Roberto Lagalla, candidato del centrodestra venuto fuori da un lato dalla tenacia con cui Giorgia Meloni puntò per prima su di lui, e dall’altro dalla marcia indietro di Francesco Cascio che, già scelto da Lega e FI – leggi Gianfranco Miccichè – per la guida del Comune, fu costretto a ritirare i manifesti dalle tipografie per poter far spazio all’ex rettore.
L’opposizione ebbe gioco facile nel rilanciare la dichiarazioni di Morvillo e Falcone, spingendo indirettamente Lagalla a disertare la celebrazione del 23 maggio davanti all’Albero Falcone.
“L’Europa guarderà il risultato di Palermo e se vincerà quella sedia vuota, sarà un pessimo segnale”, ha detto ieri Enrico Letta, segretario del Pd, tornato in Sicilia per la seconda volta a sostegno del candidato del centrosinistra, Franco Miceli.
Ad allontanare i sospetti dei suoi critici è valsa a ben poco l’autodifesa di Lagalla (“Con me i mafiosi e i loro complici rimarranno fuori dal governo della città”, “Cuffaro e Dell’Utri non sono gli ispiratori della mia candidatura”, “Ho partecipato per trent’anni a queste manifestazioni. Da solo mi recherò all’albero Falcone, lontano dalle telecamere che altri strumentalmente hanno utilizzato per questa vicenda”, sono alcune tra le sue dichiarazioni di quei giorni), che ha dovuto tentare di schivare in queste ore la nuova tegola: l’arresto di Polizzi, candidato in ticket con Adelaide Mazzarino, fedelissima di Miccichè. “A lei devi votare”, disse Polizzi in una delle conversazioni intercettate, riportate nell’ordinanza del Gip. “Per il buon nome non solo di Forza Italia, ma della politica in assoluto – ha reagito Miccichè riferendosi a Polizzi e chiedendo a Mazzarino di ritirarsi dalla gara (cosa che quest’ultima ha fatto) – chiedo scusa a tutti i nostri elettori per l’errore commesso di cui mi pento. Stavolta ci siamo incappati, ma ci costituiremo parte civile, a dimostrazione della nostra buona fede. Dopo di che, attendiamo di capire quanto di tutto questo sia assolutamente reale”.
“La mafia e le sue ramificazioni stiano lontane dalla mia porta, non troveranno mai alcuna accoglienza, saranno accompagnate immediatamente e senza tante gentilezze alla procura della Repubblica”, ha detto a sua volta Lagalla, che ha ricordato a Letta sia la parabola dell’ex presidente della Regione in quota Pd, Rosario Crocetta, sia che “nessuno, se non la sola magistratura, poteva essere in grado di conoscere certe frequentazioni di chi è stato arrestato, così come non le avrebbe potute conoscere Leoluca Orlando quando 5 anni fa ospitò tra le sue liste lo stesso candidato”.
Quest’ultimo, intanto, ha deciso oggi di non avvalersi della facoltà di non rispondere al Gip e insieme ad Agostino Sansone, imprenditore e storico boss vicino a Totò Riina, e a Manlio Porretto, “factotum” di Sansone, ha tentato di sminuire la portata dei loro incontri.
“Millantavamo”, hanno in sostanza spiegato, riferendosi soprattutto alla frase pronunciata da Polizzi e rivolta a Sansone, centrale nella ricostruzione degli investigatori e nella contestazione del 416-ter, l’articolo che contempla il reato di scambio elettorale politico-mafioso: “Se sono potente io, siete potenti voi altri”.
Pronunciata il 10 maggio scorso dal candidato e ascoltata in diretta dagli investigatori, l’indagato ha detto che quello è il suo modo di esprimersi. “Un breve scambio proposta-accettazione avvenuto in poche battute”, e che appare rivelatore, secondo la valutazione della procura riportata nell’ordinanza firmata dal gip Alfredo Montalto, di “un ritorno a un passato di certo non lontano, quello di Cosa nostra e dei suoi rapporti con il mondo della politica e di altri settori nevralgici del Paese, in primo luogo quello dell’imprenditoria, che ha segnato la storia, anche quella più recente, del Paese”.
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