Contrasto e prevenzione antimafia, priorità nazionale?

Uno sguardo alle leggi del Bel Paese, tra privacy, oblio, omissis e contiguità

Nella storia della Repubblica l’azione antimafia è stata priorità solo negli slogan, per tutte le forze che si sono succedute al governo del Paese. Tranne rare e isolate eccezioni è sempre mancata coerenza tra tuonanti enunciati e azione legislativa. È mancata, nella generalità delle compagini di Governo, una necessità assoluta in questo ambito: l’intransigenza.

Abbiamo visto approvare, certo, provvedimenti utili. Due esempi su tutti: le misure di prevenzione patrimoniali, personali e degli Enti locali, così come le interdittive antimafia per le imprese su cui poggiano convergenti e univoche risultanze di condizionamento e infiltrazione mafiose; la riforma del 416-ter, ovvero del reato di voto di scambio politico-mafioso, con aumento delle pene.

Norme che, approvate, sono state poi svuotate di efficacia e rischiano di esserlo ancora di più dalle impostazioni delle più recenti riforme varate in materia di giustizia.

Bene che il primo impegno voluto da Giorgia Meloni sia un provvedimento per salvaguardare il regime carcerario ostativo per i reati di mafia applicato a chi sceglie di non collaborare con la giustizia. Ottimo, ma rischia di essere un provvedimento vuoto se non si interviene su altro.

“Ragionevole durata del processo” e compromessi al ribasso

Prima di tutto, in nome del “ce lo chiede l’Europa”, da qualche tempo è entrata in vigore la decisione che impone, per i processi di appello, in caso di assoluzioni di primo grado, di dover riascoltare i testimoni sentiti nel dibattimento di primo grado.
In pratica: si deve ripetere il primo grado di giudizio nel processo di appello. Alla faccia della “ragionevole durata del processo” si potrebbe dire, ma in realtà questa rappresenta un bonus per ottenere la prescrizione in processi complessi come sono, appunto, quelli per il reato di associazione mafiosa.
Con la tecnologia, se si vuole garantire che i giudici “vedano” e “sentano” i testimoni, non limitandosi più a leggere le trascrizioni delle udienze, basterebbe videoregistrare le testimonianze di primo grado e inserire tali registrazioni nel fascicolo del dibattimento, così che i giudici d’appello possano “vedere” e “sentire” i testimoni.
Troppo difficile? Pare di sì.

Vi è poi, sempre per rimanere alla “ragionevole durata del processo”, l’assurda norma della procedura per cui, nel rito ordinario, non possano essere acquisite le informative della Polizia Giudiziaria su cui si fonda l’azione penale esercitata dall’Ufficio della Procura, salvo che le difese non diano il consenso. E non lo danno praticamente mai.
E questo cosa comporta? Semplice: il contenuto dell’informativa (o delle informative, molteplici, in casi di procedimenti più ampi) deve essere riferito dai teste di Polizia Giudiziaria in aula. Il risultato è lo stesso, ma se l’acquisizione dell’Informativa (o delle informative) significa qualche minuto d’udienza, il riferirle in aula significa, a volte, qualche mese di udienze, altre volte anni.
Anche qui: perché non permettere il deposito con acquisizione delle informative scritte, salvaguardando il pieno diritto della difesa di effettuare il controesame dei testimoni di Polizia Giudiziaria sui contenuti dell’informativa (o delle informative) acquisite? Si risparmierebbe tempo. Eppure non si sente mai ragionare di questo quando si parla di accorciare i tempi dei processi.

Il problema della trasparenza

E veniamo a uno dei termini usati dalla Meloni sul tema delle mafie, cioè che devono sentire il “disprezzo”. Bene, d’accordissimo. Ma oggi i mafiosi e i loro sodali sono protetti da “omissis” e “privacy”, da norme di legge che risultano surreali. Ecco degli esempi.
Viene inviata una Commissione di Accesso in un Ente locale (sia esso un Comune o un’Azienda Sanitaria). Questa Commissione stende una relazione che fotografa lo stato di condizionamento e/o infiltrazione dell’ente che comporta lo scioglimento e il commissariamento dell’Ente. Ebbene quei dati, quelle informazioni su amministratori e funzionari dell’ente, così come su soggetti e imprese legate o diretta emanazione delle organizzazioni mafiose, sono “secretati”. Non vengono posti all’attenzione dell’opinione pubblica, ovvero dei cittadini, come anche delle imprese oneste, e spesso persino nemmeno ai reparti investigativi dello Stato, limitando così una consapevolezza su soggetti e fatti specifici, documentati, che riguardano una Pubblica Amministrazione la cui trasparenza dovrebbe essere il primo elemento tutelato dallo Stato.

Stessa cosa quando viene disposta un’intedittiva antimafia per imprese infiltrate e condizionate da organizzazioni mafiose, quando non direttamente emanazione delle cosche: queste interdittive sono, ancora una volta, “riservate”.
Cosa significa questo? Semplicemente che quelle imprese su cui vi sono fondati elementi univoci e convergenti che comportino l’adozione da parte delle prefetture di un provvedimento interdittivo, non si possono conoscere, così da poter concorrere con le imprese pulite per appalti privati (da quelli per le ristrutturazioni condominiali a quelli per le lottizzazioni edilizie. Uguale per i noli nei cantieri).
I primi ad omettere per ragioni di “privacy” la decadenza di concessioni e autorizzazioni pubbliche o di recesso di affidamenti di lavori o servizi pubblici, sono gli Enti locali, dai Comuni alle Regioni alle Asl, passando per le Province. Quando si ritrova una determinazione o delibera online, negli albi pretori obbligatori per legge, dove si era trovato l’Atto di concessione, autorizzazione o affidamento, all’impresa ora interdetta, si ritrova un atto “omissis” al posto del nominativo dell’impresa interdetta. Così anche nelle sentenze e nelle ordinanze di Tar e Consiglio di Stato. Sia che siano pronunciamenti di conferma o di annullamento della misura interdittiva, non si può conoscere chi sia l’impresa mafiosa per cui l’interdittiva è stata confermata o “riabilitata”.

Quel pasticciaccio brutto del “diritto all’oblio”

Si potrebbe andare oltre. Si potrebbe trattare l’assurda normativa sull’oblio applicabile anche in materia di atti giudiziari riguardanti reati di mafia o terrorismo, pedofilia, reati di allarme sociale e per cui la consapevolezza dell’opinione pubblica dovrebbe, invece, essere garantita a tutela della stessa collettività.
Si potrebbe parlare del perenne tentativo di ridurre l’utilizzo delle intercettazioni, strumento essenziale per contrasto delle organizzazioni mafiose, delle associazioni per delinquere finalizzate alla commissione di gravi reati contro la Pubblica Amministrazione o, per fare ancora un esempio, per il terrorismo e le attività eversive, senza preservare l’assoluta necessità di non porre limitazione a tale strumento per questi e altri gravi reati.
Si potrebbe ancora trattare della mancanza, ancora oggi, di una banca dati riservata ai Dirigenti dei reparti investigativi – come DIA, ROS, SCO, GICO -, ove siano contenuti tutti i provvedimenti (Ordinanze di Custodia Cautelare, con relative richieste di misure ed informative, così come le Misure di Prevenzione personali e patrimoniali adottate con sequestro anticipato e poi confisca, con le relative informative) delle locali DDA, così da permettere ai reparti investigativi preposti di avere ampio incrocio dei dati disponibili e già oggetto di screening investigativo e giudiziario.

Ci sarebbe molto da dire. Vi saranno altre occasioni per entrare nel merito, come sulla necessità di affidare agli uffici del tribunale in cui opera la DDA di competenza, anziché dei Tribunali locali, la verifica sulle misure alternative e sull’applicazione della Sorveglianza Speciale, così da garantire una valutazione adeguata e più tutelata da parte dei magistrati investiti da tale compito.
La questione è ampia e complessa. Non la si può semplificare. Non si può pensare di ridurla ad enunciati come quello della “certezza della pena” se poi si rende impossibile infliggere le pene. O annacquare i provvedimenti adottati dietro i paraventi di “privacy” e “oblii”.

Scarpinato al Senato: “Il governo Meloni si regge sui voti di un partito il cui leader ha mantenuto rapporti pluriennali coi mafiosi”

In materia, Roberto Scarpinato è uno dei maggiori esperti. Di certo ha opinioni e collocazione politica ben distinte da quelle dell’attuale Presidente del Consiglio, ma è una risorsa per comprendere come il legislatore possa agire, al meglio, per un’efficace azione di prevenzione e contrasto.
Dovrebbe essere tenuto in considerazione, certamente più di quanti nelle file della maggioranza parlamentare (e non solo) hanno avuto certificati rapporti con la criminalità organizzata di stampo mafioso, come accertato da Sentenze (e si veda al proposito quelle della maxi operazione “Infinito” della DDA di Milano) o come emerso in molteplici procedimenti delle DDA di Reggio Calabria, Palermo e Firenze, ancora in corso, ma che già documentano inappropriate relazioni (per ricordare l’insegnamento di Paolo Borsellino) che la politica non può non considerare e condannare.

Christian Abbondanza

Christian Abbondanza

Blogger antimafia che da anni si preoccupa di denunciare nomi e cognomi e connivenze della ‘ndrangheta in Liguria. È il presidente della Casa della Legalità ONLUS, un occhio aperto sulla criminalità, le mafie, i reati ambientali e le complicità della Pubblica Amministrazione.