“Genova – Questa mattina, intorno alle 11.30, è crollato all’improvviso un tratto del ponte Morandi, il viadotto della A10 che passa sul Polcevera. Sembrerebbero una trentina i mezzi coinvolti. I soccorritori sono al lavoro alla ricerca dei dispersi, ma le notizie sono ancora frammentarie”.
È il 14 agosto 2018. Queste le sole righe che siamo riusciti a scrivere mentre di fretta e furia ci recavamo, increduli, al ponte delle Ratelle, un piccolo passaggio pedonale sul Polcevera, per cercare di capire la situazione. In effetti non eravamo preparati a vedere quella voragine di cento metri e quelle figure piccole, come formiche, dei Vigili del Fuoco appesi alle macerie nel disperato tentativo di salvare vite. Le ipotesi in quei mesi si sono sprecate: c’è chi parlava di attentato, o chi di un fulmine, vista la giornata di fortissima pioggia nonostante fosse la vigilia di Ferragosto, altri ancora sostenevano che la colpa fosse dell’eccessivo peso di un camion con sopra una bobina d’acciaio. Una cosa è certa, la vista del viadotto Morandi strappato dallo skyline della Val Polcevera, lascerà per sempre un segno profondo e doloroso in tutti i genovesi.
Nel Consiglio dei Ministri che si tenne in prefettura il 15 agosto, la frase più ricorrente fu “revocare le concessioni”. Come se in Italia fosse così facile togliere il bancomat a un’azienda a cui era stato “regalato” qualche decennio prima. Francamente ascoltammo increduli quella dichiarazione di Giuseppe Conte, allora Presidente del Consiglio del governo M5S-Lega, perché immaginare di sottrarre una montagna di soldi cash a un’azienda come Atlantia, che l’Italia se la sarebbe potuta comprare, sembrava inverosimile. E in effetti non è ancora successo.
E se da una parte la politica era impegnata a gestire un’emergenza non solo logistica ma anche sociale, dall’altra il sindaco Marco Bucci stava provvedendo, in collaborazione con la Regione, a sistemare il più rapidamente possibile gli sfollati di via Porro che sulla testa avevano una porzione pericolante di viadotto. Nella concitazione di quei momenti, quando ci aggiravamo per le strade parlando con le persone, spesso con il groppo in gola e una rabbia a momenti dolorosa, Autostrade confermava la sua totale disponibilità a ricostruire il viadotto sottolineando di aver sempre adempiuto ai suoi doveri di concessionario.
Ma si sa, l’Italia è un paese straordinario, anche quando si tratta di fare il gioco delle tre tavolette. Autostrade, incapace di gestire la comunicazione e forte della sua arroganza economica, il 18 agosto si presentava in un’affollata conferenza stampa dove riusciva a tirare fuori dal cappello la peggiore performance che ci si potesse aspettare. Lo spocchioso amministratore delegato dell’epoca, Giovanni Castellucci, in compagnia del Presidente di Atlantia, Fabio Cerchiai, dopo aver cercato di scusarsi per il drammatico crollo, ci raccontarono quello che effettivamente volevano farci scrivere: non siamo colpevoli finché la giustizia non lo deciderà in un’aula di tribunale. Nel mentre i Vigili del Fuoco, la Polizia di Stato, la Polizia Municipale – di Genova, Milano, Torino e Livorno -, i Carabinieri, i volontari delle Pubbliche Assistenze, la Guardia di Finanza e i genovesi, erano stretti in un unico abbraccio fatto di dolore, sudore e rabbia.
Nei giorni che seguirono, in un’atmosfera surreale, tra indiscrezioni, comunicati stampa e video, l’attenzione si concentrò su chi aveva dovuto abbandonare la propria casa e le proprie cose, e su chi risultava ancora disperso.
Poi si tirarono le somme:
43 vittime di un crollo criminale. Il dolore culminato con i funerali di stato, che finirono di straziare una città colpita nel profondo. Le esequie obbligarono tutti a fare i conti con la realtà, furono un punto fermo da cui dover ripartire per cercare di far sopravvivere una Genova barcollante.
Lo strazio si replicò a Coronata con i funerali per Mirko Vicini, un giovane lavoratore di Amiu travolto dal crollo nell’isola ecologica di Campi dove aveva trovato lavoro con un contratto a tempo determinato. Da questo punto in avanti, al dolore si sommarono le difficoltà di mesi e mesi: in quartieri come Sampierdarena, Certosa, Borzoli e Fegino, già in forte crisi infrastrutturale e sociale, si abbatterono un traffico infernale, mille difficoltà per il commercio, e le complicazioni di un sistema di trasporto pubblico debole e da sempre trascurato. A tutto questo si aggiunse anche una sostanziosa perdita di posti di lavoro che l’amministrazione poteva solo cercare di arginare ma non certo risolvere. Ma è stato anche un periodo di forti polemiche per chi, a tu per tu con le macerie del Morandi, rimase escluso dai risarcimenti mentre ne subiva le conseguenze.
Per certo la città aveva perso un’arteria importante e doveva ripristinarla.
Ecco, è qui che comincia un’altra storia e il suo protagonista è un Commissario nominato dal Governo, con poteri praticamente illimitati che sin dal primo momento e senza mai cambiare idea, aveva sposato il progetto di Renzo Piano.
Mentre al centro della discussione politica restava la revoca delle concessioni, probabilmente mai voluta o voluta solo timidamente dai partiti “tradizionali”, caldeggiata da molti cittadini, e rilanciata dal M5S, considerando l’assetto societario di Atlantia e guardando gli azionisti, che la revoca fosse una richiesta velleitaria lo dicevano in pochi ma lo pensavano tutti.
Ma iniziò anche a diffondersi l’idea che un ponte nuovo non serviva, che un’opera come quella progettata da Morandi andava conservata e soprattutto rispettata. Portatore di questa idea era Enzo Siviero, un ingegnere con un “curriculum grande così”, uno che per tutta la sua vita professionale ha progettato e costruito ponti. Uno che puoi anche non condividere ma non puoi rifiutarti di ascoltare. Naturalmente si schierarono due formazioni, quella a favore del recupero e quella del “su quello che rimane del Morandi non ci salirò mai”.
Se a questo sommiamo il traffico caotico, le difficoltà di raggiungere il centro città e la crisi economica in cui erano cadute molte attività adiacenti al ponte crollato, possiamo dire che in quei mesi la tensione in città si poteva toccare con mano.
E in effetti, questa viabilità complicata da una rete ferroviaria ottocentesca, da autostrade del ventennio e da un trasporto pubblico inadeguato per definirsi “smart”, portò all’estremo lo smog e l’inquinamento acustico nell’unica grande arteria rimasta a collegare il Ponente con il casello di Genova Ovest: Lungomare Canepa. Lo stesso si può dire per via Borzoli, il solo collegamento tra la Valpolcevera, il Ponente cittadino e il centro. Entrambe assediate dagli autoarticolati che andavano e venivano dal porto.
Nel frattempo, il momento di mettere fine a ciò che restava del Morandi stava arrivando. Come in un vecchio film western, si vociferava dell’arrivo in città di Mister Dinamite, al secolo Danilo Coppe, ingegnere esplosivista che in otto secondi avrebbe atterrato i due monconi rimasti del vecchio viadotto e dato così il via alla ricostruzione del nuovo ponte sul Polcevera. I comitati cittadini cominciarono allora a chiedere che fossero messe in atto delle opere di mitigazione per evitare che i residenti dei quartieri già così tanto colpiti dal crollo, Certosa e il Campasso, non respirassero anche le polveri dell’esplosione. Che non sarebbero state banalmente solo polveri di cemento ma residui di idrocarburi depositati in 50 anni di traffico e con molta probabilità anche fibre di amianto.
È così che si arrivò al 28 giugno 2019 quando, in pochi secondi, quello che restava del Morandi scomparve alla vista e la strada che avevamo percorso migliaia di volte per raggiungere il centro, o come dicono i ponentini doc “per andare a Genova”, sparì per sempre. Ma è proprio allora che questa città divisa ha forse mostrato a tutti il suo vero volto. Il Ponente delle servitù, braccio industriale di Genova, obliterato dal Centro amministrativo e dalla parte residenziale di lusso, quella a Levante. Per la prima volta eravamo apertamente periferia.
Saltiamo all’attualità. A 18 mesi dal crollo, il nuovo viadotto sul Polcevera procede spedito. Il cantiere issa pezzi giganteschi, li lima e li salda, li sistema, in apparenza con la stessa semplicità con cui da bambini usavamo i Lego. Noi italiani siamo bravi, progettiamo grandi opere, abbiamo cervelli fini e lavoratori specializzati. La nuova via sul Polcevera prende forma e presto le macchine sfrecceranno sull’asfalto nuovo senza intasare la città.
Ah no, un attimo. E quella cosa di forma elicoidale piena di impalcature? Roba vecchia a cui stiamo per attaccare una splendida opera nuova? Sembra di sì. L’elicoidale del Campasso è in concessione e di pertinenza di Autostrade che la sta rimodernando, eppure nei giorni scorsi l’ispettore del MIT, Placido Migliorini, che ha condotto qui un sopralluogo, ha rilevato “un grave ammaloramento della struttura”. Mentre da una parte, il Commissario Bucci faceva correre la costruzione del nuovo viadotto, dall’altra Autostrade metteva pezze al vecchio raccordo elicoidale. Sono molte le domande che ci vengono alla mente. Ma se l’elicoidale, coeva del viadotto Morandi, secondo Autostrade è recuperabile e sarà sicura come “un’opera moderna”, perché il Morandi è stato dato per spacciato e quindi fatto esplodere? E ancora: se il Morandi era “marcio” come può essere in perfetta forma l’elicoidale?
In una dichiarazione, a giustificare la demolizione, il Sindaco disse che “i genovesi sul Morandi ristrutturato non ci sarebbero passati”. Ora passeranno sull’elicoidale? E i gravi ammaloramenti rilevati dall’ispettore, rischiano di ritardare il cronoprogramma del nuovo viadotto, costruito a tempo di record? Chi pagherà, detto in soldoni, questo eventuale ennesimo disguido che arrecherà altri danni alla città?
Ma una domanda su tutte è quella che più solletica la nostra curiosità: dal nuovo cantiere, mentre si dava vita al progetto di Renzo Piano, a qualche bravo professionista non è venuto in mente di chiedere come mai un viadotto nuovo di zecca e costosissimo sarebbe stato attaccato a un rimasuglio anni ’50? Certo, vale anche per i giornalisti che però fanno un altro mestiere e non sono ingegneri. E poi questa è la vita vera, mica un social dove chiunque può dire quello che che crede.
fp
Per non dimenticare:
Svenduta. Il lungo “Black Friday” delle privatizzazioni in Italia
Spirito libero con un pessimo carattere. Fotoreporter in teatro operativo, ho lavorato nella ex Jugoslavia, in Libano e nella Striscia di Gaza. Mi occupo di inchieste sulle mafie e di geopolitica.